New York: ore 3 – L’ora dei vigliacchi (The Incident) 1967 di Larry Peerce

Due teppisti in cerca di guai, un gruppo di persone che torna a casa a notte fonda; l’euforia, gli umori e gli animi della fine degli anni Sessanta, un viaggio in metro che diventa un incubo.
Il secondo film di Larry Peerce si apre con questi due giovani teppisti che girano per New York a notte fonda, capiamo fin da subito che cercheranno guai, ma il film di certo non mostra le bravate di due giovanotti in preda all’alcol…
Dopo i titoli di testa il regista ci presenta uno ad uno i co-protagonisti della storia, cinque coppie di differente classe ed età, un uomo di mezza età, un giovane e due militari.
Salgono tutti sulla metro, ognuno porta con sé i suoi problemi: da quelli economici, alla questione razziale, e ancora l’aspetto sessuale nelle sue varie connotazioni; e infine salgano sul treno i due protagonisti.

Ecco da ora in poi il film diventerà un thriller psicologico, un gioco al massacro che i due porteranno fino alle estreme conseguenze; sul treno sono rappresentate alcune minoranze dell’epoca e ahimè anche di oggi: una coppia di afroamericani, un omosessuale, un ex alcolista, due anziani.

Ecco che allora i due teppisti hanno vita facile ed il regista, con grande talento e forza, ci mostra, dopo averci raccontato i caratteri dei passeggieri, un meccanismo diabolico sempre attuale; i passeggeri, impauriti dai due teppisti, non si rivoltano alle sevizie di questi ultimi e guardano incuranti quello che succede agli altri, è una storia vecchia come il mondo, una risposta istintiva così profondamente radicata nell’uomo da essere sempre attuale.

L’escalation di violenza si fa più evidente e fastidiosa, soprattutto per gli spettatori di allora non ancora preparati a quello che gli anni Settanta mostreranno, però siamo nel 1967, Hollywood sta cambiando e il film porta con sé alcuni punti tematici propri della New Hollywood, pur con un sapore al quanto teatrale.

Quando l’eroe salta fuori, e di un eroe non si può parlare, praticamente tutti gli astanti sono stati perseguitatati, chi in un modo e chi in un altro, e il finale violento non cambia la vicenda di fondo, del resto quando tutti escono dal veicolo, ad incubo scampato, passano sopra al corpo dell’ubriacone che per tutta la durata del viaggio ha dormito, non curanti e anzi disinteressati alla sua sorte.

La violenza che il giovane soldato mette in atto è forse ancora più sconvolgente per gli altri passeggeri che si erano abituati a quello stato di tensione, a quel non voler reagire, alla paura e alla codardia, al che rimangono esterrefatti da una reazione così brutale, ma non parliamo di un atto eroico, e difatti anche il soldato capisce che si è speso e fatto male, forse, per nulla.

Il film sembra ricordare un concetto al quanto semplice eppure così complesso, che l’unione fa la forza, soprattutto davanti alla forza dei pochi che vogliono sovvertire le regole, impaurendo gli altri, e non ci salva da soli ma tutti insieme.

Se vogliamo riecheggia alcuni moniti, seppur in modo totalmente diverso, degli insegnamenti di un capolavoro insuperabili come è “La parola ai giurati”, lì la democrazia, l’intelligenza e la riflessione vincevano sul pregiudizio, qui invece la paura ha il sopravvento sulle buone intenzioni, tutti si sforzano solo di salvare sé stessi e il proprio nucleo, il procedimento filmico è simile, con le dovute differenze.

Un piccolo gioiello dimenticato questo di Peerce, che poi non tornerà a questo vertice ma lavorerà spesso con Bridges (il soldato che reagisce), ma che qui con soggettive affascinanti, una fotografia assolutamente eccezionale della notte di New York, riesce a cogliere alcuni temi del momento e a raccontarli attraverso un dramma da camera con sfondi thriller, dando l’opportunità agli esordienti Musante e Sheen di esibirsi in una prova maiuscola.

Ci si potrebbe soffermare sulle noiose beghe borghesi che vivono molti protagonisti del film: pensieri economici, inadeguatezza sociale e/o sessuale, problemi di dipendenza, c’è un po’ tutto nella pellicola, ma questi dettagli sono fondamentali se presi nell’insieme; le debolezze di queste persone formano l’habitat perfetto dove può proliferare la violenza e la prevaricazione e allora il gioco al massacro ha inizio.

In cento minuti, in un film di più di cinquant’anni fa, seppure con la sua teatralità, con i suoi errori, assistiamo ad uno spettacolo così vivo e tremendamente attuale; l’indifferenza e la non volontà di aiutare chi è in difficoltà per preservare uno status, per preservare sé stessi anche a costo di non agire mai, di rimanere inermi rispetto agli abusi.

Eclatante in tal senso la figura del marito afroamericano che di fronte alla violenza dei due teppisti viene meno ai suoi proclami di odio verso i bianchi e sopraffattori, mentre aveva fatto il gallo con il bigliettaio razzista.

Il regista non accomuna vittime e carnefici, ma ci spiega bene come può nascere un clima di tensione e violenza; è nel gesto del soldato che si ravvisa l’amarezza dell’assunto, steso per terra dopo essere stato pugnalato, senza che nessuno lo aiutasse, capisce di aver agito per dare forse un esempio, per aiutare il prossimo, forse invano.

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