Captive state(2019) di Rupert Wyatt

Il genere cinematografico, prima western poi soprattutto horror e fantascienza, ma anche la commedia, è da sempre la massima espressione di cineasti appassionati che realizzano film politici e importanti.

Solo attraverso il Genere si riesce ad avere uno spettacolo che appassioni lo spettatore, qualsiasi esso sia, che lo faccia anche riflettere, che illumini almeno in piccolissima parte una porzione di realtà e mostri le crepe del sistema sociale. Ecco, allora Captive State è fatto di questa pasta, è figlio culturalmente e si ispira ai vari: Alien, Matrix, ma soprattutto al capolavoro insuperato di George Orwell 1984.

La trama in breve

Gli alieni arrivano sulla terra. Dieci anni dopo hanno il controllo di tutto, grazie alla collaborazione dei politici della terra. Chicago è diventata una città fortificata, in cui le differenze tra ricchi e poveri si sono amplificate. Un gruppo di persone ha organizzato una “resistenza” e il loro obbiettivo è quello di far saltare in aria il quartier generale degli alieni: la Zona Rossa. Un ragazzo si trova immischiato in tutto questo, in quanto il fratello è stato leader e uomo simbolo del movimento fin dall’arrivo degli alieni.

Come detto poc’anzi, ci sono espliciti riferimenti alla fantascienza, dato che Wyatt è un esperto avendo diretto il prequel-rebot L’alba del pianeta delle scimmie, ma anche riferimenti autoriali più alti, si pensi a La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo e a L’Armata degli eroi di Jean Pierre Melville, film esemplari per il dualismo tra istanze morali, forza visiva e svolgimento della trama. Viene fuori così una miscela quasi perfetta, in cui la trama procede spedita e dissemina indizi che fanno intuire la sorpresa finale, ma senza distogliere l’attenzione dall’insieme.

Il film è oscuro nei toni, ma non totalmente; riesce ad essere lucido nella sua analisi sociale e nel suo ruolo cinematografico, mantenendo accesa la luce della speranza. Il pregio principale del film è quello di intrattenere: azione e pathos sono perfetti (o quasi), nonostante non ci sia gran ricorso alla computer grafica, è la regia a dominare la scena.

Notevole è l’analisi del nostro sistema comunitario in cui il controllo economico passa per il controllo della comunicazione, quindi telefoni, computer e microchip per verificare passo-passo ogni spostamento dei cittadini del quartiere ghetto.

Interessante poi l’intreccio personale e l’analisi del quartiere ghetto; i protagonisti vengono raccontati con lucidità e scrupolosità, prendiamo come esempio il poliziotto, che è poi il vero motore di tutto il film: è lui che ci introduce di volta in volta al passaggio successivo, grazie al suo rapporto prima con la prostituta, poi con il ragazzino e infine con gli alieni stessi.

In questo Stato governato dagli alieni, che non sono altro che la rappresentazione di un potere politico ed economico (terreno), tutto è perfetto e la crescita economica è assicurata; le famiglie guardano, vanno allo stadio, sorridono, salutano i legislatori, vivono in tranquillità, mentre dall’altra parte la gente si uccide per pochi spicci o muore di stenti. Ma c’è chi ha scelto di sacrificarsi e smontare il giochino, che è saldamente nelle mani dei potenti, aiutati da uno Stato di polizia.

Nel film c’è un’indagine anche sul ruolo delle immagini in questa nostra società moderna, ci sono telecamere ovunque che ci controllano, creano immagini di noi che ci sdoppiamo e duplichiamo; allora il cinema non può far altro, attraverso il genere, che indagare su queste immagini e regalarci immagini potenti e forti come fa Captive State. Il regista aveva già riflettuto sulla nostra società col suddetto prequel-rebot di una delle serie più appassionanti del genere sci-fi, Planet of the Apes, che ha resistito agli anni e ai cambiamenti, e anche in quel caso era riuscito ad analizzare con lucidità e forza la nostra società.

Il finale lascia presagire che ci sarà un seguito e ci lascia con vari punti da chiarire, ma anche con la voglia di vedere cosa accadrà. È nella parte centrale, in cui la cellula della resistenza si organizza, che abbiamo un cinema forte, di impegno e la ricostruzione di una cellula di resistenza-terroristica è precisa e attinente. Il regista sceglie i piani lunghi, ma anche i dettagli e l’intero film seguono il movimento di questi personaggi che in un modo o in un altro si combattono: i poliziotti e i potenti spinti dalla voglia di confermare il loro status e ruolo di potere, la resistenza per far si che il mondo possa uscire dalla morsa mortale dei legislatori.

“Accendi un fiammifero, scatena una guerra!”  Questa frase così ricorrente durante il film è la parola d’ordine della resistenza. E allora il film è in grado, seppur nel suo piccolo, di puntare lo sguardo su un sistema sociale ed economico che sta portando il mondo sempre più verso un incontrollabile dominio di pochi sul resto della popolazione; questo dominio si attua attraverso il controllo e allora come non sperare nella riuscita del piano dei protagonisti, e come non comprendere appieno l’importanza della frase che è il motore del film: Accendi un fiammifero, scatena una guerra!”

In conclusione, il film è un piccolo gioiello che è passato e passerà inosservato perché non è pieno di stereotipi, perché non tratta direttamente il tema razziale, anche se mostra con grande forza il problema della diversità, perché non ha una vera star, anche se John Goodman è grandioso nel suo ruolo. Un film che ha assorbito vari generi e pensieri autoriali, che mischia sci-fi e thriller ma che si segnala per la sua forza politica e visiva.

Di Matteo Bonanni

 

Precedente Peterloo (2018) di Mike Leigh : un massacro preannunciato e di estrema attualità Successivo Lightship (1985) di Jerzy Skolimowski- Una nave faro (gli USA) per il mondo intero, ma sempre a rischio di conflitto.