Correre per scappare dalla propria vita. Velocità Massima (2002) di Daniele Vicari

La trama in breve

Ostia. Il proprietario di un’autorimessa sempre sul punto di chiudere assume, senza pagarlo, un’apprendista davvero bravo. Insieme riescono a mettere a punto un’auto pronta a partecipare alla pari alle corse clandestine che periodicamente si tengono a Roma nell’area attorno all’Obelisco. Problemi di cuore, ma soprattutto economici, mineranno la loro amicizia.

Dopo una serie di documentari Daniele Vicari esordisce con un piccolo film che, pur con i suoi difetti, è già immerso nella poetica del suo regista. Con Velocità Massima il regista ha vinto il David di Donatello come Miglior regista esordiente.

La critica e in parte il pubblico all’epoca lo hanno paragonato e assimilato al ben più famoso Fast and furius, ma il film ha poco a che vedere con le dinamiche hollywoodiane e approccia al mondo delle corse illegali, problema molto diffuso all’epoca, e allo sport in maniera interessante.

Il film è originale, perché approccia al mondo dello sport, in modo diverso da molti film sulle corse e sullo sport in generale, nel cinema di Vicari c’è sempre uno scontro: in Diaz tra manifestati e polizia e se vogliamo tra Stato e cittadini, in Sole cuore e amore, tra impiegata e capo, anche qui c’è un incontro-scontro, quello tra il capo meccanico e il suo apprendista, ma ancora di più c’è lo scontro tra i giovani e la realtà circostante.

In una Ostia deserta e abbastanza povera, vediamo la storia di questo giovane meccanico che per sfuggire alla sua “miseria” butta i soldi dietro alle corse illegali, con e contro una serie di personaggi; alcuni che come lui, scappano dalla realtà e altri che godono nel dominare l’avversario, nel dominare il mezzo macchina che, in quel frangente, diventa un prolungamento degli arti e della persona.

Lo sport, la passione per i motori viene mostrata poco nel film, a parte nei momenti in cui modificano le autovetture, per il resto il film vuole ragionare più su questi giovani romani un po’ allo sbando, indecisi, incapaci e in parte delusi; il giovane ragazzo vive così un romanzo di formazione, in quei mesi estivi in esilio dai familiari e i problemi connessi, conosce “l’amore” e conosce in parte le dinamiche della vita, i problemi economici. La ragazza, un po’ “facile”, è uno dei personaggi che guida la sua crescita e il suo cambiamento, ma ovviamente il personaggio cardine è quello di Stefano (Valerio Mastrandrea), il meccanico capo che cerca, a modo suo, di insegnargli a cavarsela. Lo stesso Stefano è l’emblema di questa storia, figlio di un ex operaio, cresciuto con principi che ha poi rinnegato, cerca con le macchine, per lavoro e per passione, di svoltare, di cambiare una vita che gli sta stretta.

È un personaggio solo, un po’ triste, sembra in parte, ma è un elemento tipico della recitazione dei primi film di Mastrandrea, un “ragazzo di strada” cresciuto e ambientatosi nella modernità, senza riuscire ad adeguarsi.

Vicari è il regista politico della sua generazione, attraverso un cinema tecnicamente valido e narrativamente d’impatto porta avanti una sua visione, cercando di mostrare alcuni aspetti della società italiana ed europea non in linea con il graduale progetto di progresso culturale socio-economico, è il regista di uno dei più importanti film degli ultimi vent’anni di cinema italiano, quel Diaz già citato che riesce ad essere da una parte cinema di denuncia e dall’altra cinema allo stato puro, dove le immagini hanno ancora il ruolo che si meritano.

Il film vuole essere un resoconto su un fatto di cronaca, su questo branco di ragazzi che in preda al fanatismo da playstation rischiavano la vita per vincere una corsa e farsi belli, ma al regista non interessa la corsa, il mezzo, neanche in parte lo sport, che è solo un pretesto; gli interessa la storia dei due un po’ disperati protagonisti, il loro progredire, la città e l’economia che gli ruota intorno.

La sceneggiatura ha sicuramente delle pecche, che si dimenticano facilmente, il finale può non piacere, come possono non soddisfare le corse, ma registicamente il film è ottimo e l’attenzione come detto, è posta altrove: non tanto allo spettacolo ma al confronto tra i due ragazzi, uno più grande e l’altro non ancora maggiorenne; è in questo incontro la bellezza del film, lo stupore e il candore del giovane sono realistiche e danno al film quel tono da romanzo di formazione.

Bisogna poi dire che, senza Mastrandrea, simbolo dell’attorialità romana della sua generazione, nonché uno degli attori più attenti politicamente e versatili nel calarsi in ruoli e contesti, capace sempre di adeguarsi al personaggio, dandogli quell’amarezza e pure quell’aria beffarda, furba, ma anche un po’ disperata; il suo Stefano non sarebbe stato così adatto a rappresentare quella Roma di inizio anni duemila e le problematiche di un giovane uomo che insegue la velocità massima, per scappare da sé.

 

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