Death and the Maiden (1994) di Roman Polański

Chi lo ha detto che il cinema debba scimmiottare il romanzo storico, quando ha intenzione di filmare un evento o un periodo della storia? Chi lo dice poi che un romanzo possa fare storia, e non invece questa prerogativa debba attenersi al lavoro filologico e critico della storiografia? Storiografi che rivolgono l’attenzione spesso a scrittori o cineasti, quasi per avere un pubblico più vasto ed una notorietà che li fa deragliare ed usare quegli stessi ambiti letterari e cinematografici. Si crea così un evidente cortocircuito, animando un serpente a cui evidentemente garba molto la sua parte caudale.

Tutto ciò per dire che, meglio di altri film, con intenti programmaticamente storici, ci parla del Cile e delle violenze durante la dittatura Pinochet  La morte e la fanciulla (Death and the Maiden), film del 1994 diretto dal polacco Roman Polański. E’ vero che siamo in un paese imprecisato dell’America Meridionale, ma il libro di Pablo Neruda che si scorge sul comodino e l’omonimo dramma teatrale del cileno Ariel Dorfman (benché nato in Argentina) da cui è tratto il film, parlano chiaro. Meglio di qualsiasi drammone sentimentale che narra la storia, sia con la esse minuscola che maiuscola (come se la storia fosse una merce), La morte e la fanciulla ci fa percepire la cruda realtà delle torture al tempo della dittatura: gli escrementi su cui sbattere il volto dei torturati, le false rassicurazioni dei carcerieri per meglio sadicamente violentare.

Siamo in un ipotetico ed imprecisato periodo post dittatura. Gerardo è un avvocato facente parte della commissione per le indagini sui crimini avvenuti nel paese a seguito del colpo di Stato. Sua moglie Paulina Escobar (Sigourney Weaver) riconosce nel dott. Roberto Miranda (Ben Kingsley) la persona che in passato l’ha torturata, causandole traumi da cui non è mai riuscita a riprendersi completamente. E si vendica sul dottore legandolo e intentando un processo sommario, affrettato nei suoi tempi dall’arrivo imminente di due agenti di polizia per vigilare sull’incolumità dell’avvocato.

In questo film è la musica in fondo la vera protagonista. All’inizio e alla fine siamo in una sala dove il Quartetto Amadeus esegue La morte e la fanciulla, il celebre Quartetto n. 14 in re minore di Schubert. Anzi potremmo dire, come in Mulholland Drive di Lynch, che tutta la vicenda possa essere immaginata dalla protagonista, vedendo nella platea il dottor Miranda con moglie e figli. Per Schubert, come per Polański, il tema è una vera ossessione, visto che ha scritto un lied, anteriore al quartetto, su un testo di un poeta minore tedesco.

La musica non sottolinea l’azione ma guida la successione delle immagini e il dialogo delle parole. Dopo l’esecuzione iniziale del quartetto, c’è un raccordo vertiginoso sull’ondata del mare in burrasca, che si abbatte sul promontorio isolato dove si trova la loro casa (tipicamente polańskiana come nella trilogia Repulsion, Rosemary’s baby e L’inquilino del terzo piano). Il riconoscimento di Miranda da parte di Paulina avviene attraverso il suono della voce. La cassetta del quartetto di Schubert, trovata nella macchina del dottore, le serve come conferma ai suoi sospetti.

La stessa cassetta trovata nella macchina di Miranda ha nella copertina il motivo iconografico de “la morte e la fanciulla” nella versione di Munch, dove la ragazza bacia il teschio del partner. Lo stesso motivo è stato nel Cinquecento coniugato iconograficamente dal pittore Baldung con uno scheletro che morde vampirescamente una giovane donna nuda; ed è ripreso da Schiele in un quadro dove una sorta di Nosferatu morde il collo della sua preda. Nel film è la stessa Paulina che avvicina il volto al collo del dottore per risentire l’odore del suo corpo e per morderlo, ficcandogli in bocca le sue mutandine, per silenziarlo in maniera ambigua.

Tutto il film può essere musicalmente inteso come un quartetto. I primi due sono Paulina e il dottor Miranda, che giocano a invertirsi il ruolo di vittima e carnefice. Il terzo è il debole marito Escobar, il servo che fra l’altro nel passato deve la sua vita al silenzio della dominatrice Paulina; ma è anche la democrazia che non riesce a fare i conti nello scontro tra momios e upelientos, a regolare e dare istituzioni certe e salomoniche. Alla fine non riesce a “giudicare” Miranda e sull’orlo del precipizio della scogliera, non lo getta laddove Paulina si è sbarazzato della macchina, ma lo fa andare via libero e senza giudizio. C’è anche il quarto: è la violenza e la tortura, fine a se stessa, morbosa e malata, che porta alla morte, fisica e civile, e circola fino alla fine come la vera dominatrice.

E infine c’è il teatro. Inteso come pièce teatrale di Ariel Dorfman, bellissima, tipicamente cilena ma che ha avuto moltissime rappresentazioni, tra cui l’allestimento di Broadway, con un cast stellare (Glenn Close, Richard Dreyfuss e Gene Hackman) e la regia di Mike Nichols. Ma anche come cinema-teatro (che avrà altri esempi nella sterminata filmografia polańskiana), con ambienti all’interno dei quali la macchina da presa compie movimenti frenetici e carica lo spazio di valenze simboliche.

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