Dio è donna e si chiama Petrunya (2019) di Teona Strugar Mitevska

Si consideri che negli anni sessanta, nell’Encyclopédie de la femme, in materia di educazione delle ragazze, si sosteneva che “Il ruolo della donna nella vita è dare tutto a chi le circonda, conforto, gioia, bellezza, mantenendo sempre il sorriso, senza sembrare una martire, senza essere di cattivo umore, senza che traspaia fatica (…) Fin dal primo anno, deve saper (…) donare soprattutto quello a cui tiene di più a quelli che la circondano.”

Ci si sieda in una sala di cinema e, si dimentichi quanto sopra perché con “Dio è donna e si chiama Petrunya” si avvera la favola che ogni donna avrebbe dovuto ascoltare da bambina.

Dopo When the Day had no name (2017), la regista rumena Teona Strugar Mitevska, assieme alla sceneggiatrice Elma Tataragic, torna con Dio è donna e si chiama Petrunya, un’appassionante satira sulla condizione femminile in Macedonia.

Il film, presentato alla selezione principale della Berlinale 2019 ed al Torino film festival, ha ottenuto l’assegnazione del Premio Lux 2019 da parte del Parlamento europeo.

 

La trama è semplice: Petrunya (Zorica Nusheva) è una donna di trentadue anni, laureata in storia, disoccupata. Vive con i genitori, schiacciata da un rapporto conflittuale con la madre. Un giorno, di ritorno da un umiliante colloquio di lavoro, si imbatte in una cerimonia religiosa al termine della quale è previsto il lancio di una croce nel fiume del villaggio di Stip. Il recupero dell’oggetto sacro spetta, per tradizione, esclusivamente agli uomini e chi di costoro lo recupererà, potrà conservarlo e godere della sua fortuna. Sovvertendo le regole del gioco, Petrunya si tuffa in acqua e prende la croce. Tra l’evidente dissenso degli uomini che cercano di sottrargliela, riesce a fuggire. Il gesto infrange ogni convenzione tanto che le forze dell’ordine, senza arresto né accuse, prelevano Petrunya da casa per portarla in centrale. Qui, si alterneranno scene di sommosse, interrogatori ma, soprattutto, la giovane donna maturerà una maggiore consapevolezza della sua forza e delle sue capacità, scrollandosi di dosso il senso di colpa e le sue insicurezze.

 

Con questo film, la regista riporta in scena temi a lei cari (si vedano How I killed a Saint -2004; The Women who brushed off her tears – 2010) regalando allo spettatore un’anti-principessa: erede di una società patriarcale di cui sperimenta la violenza fisica e verbale, decide di non aderire ad un ordine in cui il corpo ed i bisogni di una donna non sono rilevanti se non entro rigidi formalismi imposti da una realtà prettamente fallocentrica. Così comincia la conquista dell’autodeterminazione che, indossando le vesti di una brillante satira, si snoda nel mondo interiore di Petrunya animato da una madre opprimente, dal peso della propria fisicità che mal calza gli agili vestitini imposti dallo stereotipo femminile, dallo spessore del suo vivace intelletto che alimenta un’esigenza di cambiamento tale da maturare sino a raggiungere una grazia rinnovata.

 

In altre parole, il film si presenta come lo specchio di una nazione entro la quale prende vita la parabola della nuova nascita di una donna, documentata accuratemene attraverso gli innumerevoli primi piani sul volto dell’attrice: si passa progressivamente da espressioni distese e sognanti in cui traspare un’ingenuità quasi fanciullesca ed inconsapevole ad una mimica che ostenta tratti duri e fierezza.

 

In un climax di scene, spiazza la carica espressiva di alcune immagini essenza della società costruita sotto lo sguardo dell’uomo. Tra queste, Petrunya in ginocchio tra la folla di uomini che l’aggrediscono per aver violato la tradizione, lascia che si affaccino lo spettro delle lapidazioni in pubblica piazza, lo scherno di Cristo mentre trascina la croce. E’ questo un punto di svolta a partire dal quale la protagonista si batterà per non lasciare che le venga sottratto quanto di più caro.

La croce assume le sembianze dell’oggetto magico, l’espediente che consente a Petrunya di far emergere la sua identità e di vincere il modello promosso di donna ubbidiente.

Da riconoscere l’azzeccatissima scelta dell’attrice Zorica Nusheva che, lontana dal prototipo di bellezza eterea e fragile, si presenta come una donna giunonica, corporea, agli antipodi dell’estetica ma, al contempo, sensibile al desiderio, femminile di un femmineo selvaggio che si riscopre nell’indole prima che nell’aspetto.

Petrunya rende tutto possibile, divelle l’innocenza spaesata della figura femminile quale suo unico destino, imponendo una forza vitale libera da ogni dominio maschile.

Di Simona Aloisio

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