Hotel Mumbai (2019) di Anthony Maras

Hotel Mumbai, diretto dall’australiano Anthony Maras, ha il grande pregio di farci riflettere sulla scelta fatta da un regista di rappresentare uno storico episodio di terrorismo in maniera più funzionale possibile al suo proposito.

La vicenda al centro del film riguarda gli attentati di Mumbai (altro nome della città indiana di Bombay) del 26 novembre 2008, luogo di 10 attacchi terroristici islamici che provocarono 195 vittime, 300 feriti, 610 ostaggi liberati e 15 terroristi su 16 rimasti uccisi. La prima scelta del regista è stata quella di concentrarsi sull’attacco all’hotel di lusso Taj Mahai, ultimo baluardo dei terroristi e scena finale dell’intera operazione. Si è dunque solo accennato all’attacco della stazione ferroviaria, al centro ebraico e agli altri obiettivi del quartiere turistico.

La seconda scelta è stata quella di partire dal documentario Surving Mumbai (2009) ricco di tante testimonianze dirette, ma con l’intenzione di adattarlo al cinema. Il risultato è insieme un thriller ed un reenactment, con la giusta miscela di sorpresa per i colpi di scena e di fedeltà per la riproposizione storica.

Scegliere di concentrarsi su un solo episodio emblematico dell’intero attacco terroristico e cercare di “mediarlo” con il cinema, sono state le opzioni più giuste per rendere incisivo e popolare il messaggio alla base del film: di fronte alle barbarie dobbiamo trovare un unione di intenti e un comune senso di umanità, che leghi assieme in un unico afflato nazioni, classi sociali, religioni e culture. Questa semplice e apparentemente generica riflessione trova in Hotel Mumbai una precisa sostanza nelle vicende narrate come solo il mezzo cinematografico sa fare.

L’escalation di violenza la viviamo gradualmente, a cominciare dallo sbarco della piccola imbarcazione dei terroristi proveniente dal Pakistan e diretta nel quartiere Mulaba di Mumbai, e dai primi attacchi verso i cittadini stranieri. L’obiettivo dei terroristi era quello di cercare persone con il passaporto britannico o statunitense e le armi usate erano fucili AK-47, granate, presa di ostaggi e in un caso autobomba. La rivendicazione verrà dai Mujahideen del Deccan, un gruppo fino allora sconosciuto che conta l’aiuto di al-Qā’ida. La provenienza pakistana è confermata dai cellulari ritrovati che svelano chiamate verso la capitale Karachi.

Il colpo in nome di Allah inferto ad una città popolosa e in particolare a un luogo simbolico dell’opulenza occidentale viene raccontato da vari punti di vista: il rinomato chef Hemant Oberoi (Anupam Kher) che ha cucinato per la principessa Diana e un umile cameriere sikh (il Dev Patel di The millionaire), entrambi pronti a rischiare la vita per proteggere i loro ospiti; una coppia americana per metà (Armie Hammer di Chiamami col tuo nome e la bella Nazanin Boniadi, attrice britannica di origine iraniana) che si ritrova in albergo con il bambino appena nato; uno spietato milionario russo (Jason Isaacs) interessato, al contrario, solo a salvarsi la pelle che poi si mostrerà umano; i giovani terroristi comandati da una voce spietata proveniente dai cellulari. Il grande lavoro di documentazione si nota nei personaggi fittizi, che sono il risultato dei tratti di varie persone reali. La capacità di riprendere una mattanza brutale si mescola allo scandaglio dell’umanità composita che anima il plot, riuscendo a riunire intenti didascalici ad ironia dai tratti tragici. Il terrorista che uccide un’anziana inerme, nella stanza d’albergo dove drammaticamente si sta nascondendo una tata con una piccola bambina, ha nel film il tempo di meravigliarsi del funzionamento del wc, considerato una bizzarria occidentale dove “fare la cacca è divertente”.

La scelta fatta da Maras di concentrarsi sull’attacco al Taj Mahal è dovuto all’eccezionalità dell’evento. Non era certo il primo attacco a Mumbai, ma aver scelto da parte dei terroristi un simbolo del turismo in India frequentato da diplomatici e uomini d’affari ebbe una serie di conseguenze, quali dimissioni governative ed arresti all’estero, come ad esempio la coppia padre e figlio di Brescia accusata di aver avuto un ruolo di supporto logistico. Questo attacco infatti nella storia degli attentati islamici ha fatto venire a galla il problema dei “kamikaze made in Europe”, con i loro appoggi e supporti nell’occidente. L’altro elemento su cui il regista australiano poteva giocare era la miseria che si viveva fuori dall’albergo a cinque stelle e l’oscena ricchezza degli avventori che, al tavolo del ristorante, ordinavano un hamburger bovino in India o chiedevano al telefono dettagli intimi sulle prostitute con cui lavorare. Infine al centro della vicenda c’era il tema dello scontro tra i musulmani cattivi che uccidono (o meglio sono allettati da una promessa di paradiso e di aiuto economico alle famiglie) e i musulmani integrati (vedi moglie dell’americano) e i sikh (il cameriere eroe). Quest’ultimo tema del conflitto tra India e Pakistan è talmente caldo che portò dopo l’attentato al rifiuto dei musulmani indiani di seppellire gli attentatori.

Ironia della sorte, è stata proprio la maestosità e l’eleganza dei Taj Mahal Hotel a spingere molti cittadini a cercare rifugio al suo interno, e il gruppo degli attentatori è riuscito ad entrare dalle stesse porte aperte per accogliere chi cercava protezione. Il film ha il pregio di catapultarci nelle camere in cui gli ospiti si nascondevano, negli ascensori, nella hall trasformata in trincea e nel club esclusivo dove si cercava di trovare la salvezza. L’armonia conquistata dai lavoratori, che riescono nel corso del film ad integrarsi nonostante le differenze esemplificate da un povero portiere sikh e da un famoso chef stellato, si unisce alla concordia degli ospiti, che progressivamente superano gli egoismi iniziali. Tutti insieme sono contrapposti alla ferocia degli assassini, anch’essi ritratti non come terroristi senza pietà, ma come vittime del sistema, ingranaggi di una catena che non dà vie di uscita.

Anthony Maras, all’esordio se si eccettua il cortometraggio The palace, sembra seguire la lezione del Paul Greengrass di United 93, puntando sull’accuratezza delle fonti e tralasciando l’eroismo (ecco perché il titolo italiano Attacco a Mumbai – una vera storia di coraggio appare infelice). Non ci sono supereroi, i terroristi sono vittime che si sono illuse di poter dimenticare la miseria da cui provengono ed i poliziotti, privi di mezzi, vengono traditi dalla loro goffaggine. Il regista nell’esporre i fatti senza spettacolarizzazione, sceglie tinte desaturate e colori poco accesi per rendere meglio la claustrofobia della vicenda. Rispetto al film Taj Mahal di Nicola Spada, presentato alla Mostra di Venezia nel 2015, Hotel Mumbai di Maras è un film compiuto con una sceneggiatura solida, grazie alla collaborazione di John Collee. Rende così al meglio una pagina della nostra storia che, in altri contesti, continua a ripetersi drammaticamente. Il fatto che il film appaia sugli schermi italiani è comunque positivo, visto che per esempio Utøya 22. Juli, film del 2018 di Erik Poppe sul massacro avvenuto su un isola norvegese, è rimasto inedito in Italia.

Di Marco Chieffa 

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