I, Tonya (2017) di Craig Gillespie

C’è un film che ci fa contemporaneamente conoscere un grande sport praticato dalle donne (in un momento dove seguire il calcio femminile è alla moda) e la clamorosa aggressione della pattinatrice Nancy Kerrigan accaduta il 6 gennaio del 1994, per la quale venne accusata indirettamente la collega Tonya Harding, interessando lungamente l’opinione pubblica statunitense.

Il film si intitola I, Tonya e il regista australiano Craig Gillespie lo ha diretto nel 2017. Gillespie ha scelto il genere del falso documentario o mockumentary che gli ha permesso di giocare con lo spettatore dall’inizio alla fine del film. Gli attori così hanno potuto sfondare la “quarta parete” e parlare al pubblico non solo con le interviste ma uscendo spesso dal personaggio. Il risultato è un mélange tra film autobiografico, documentario e commedia amara, che meglio rende la realtà di uno sport quale il pattinaggio artistico su ghiaccio femminile.

E’ questa una delle specialità del cosiddetto pattinaggio di figura e la gara prevede due prove, il programma corto e quello libero. Sempre al centro c’è il giudizio dei giudici di gara che devono considerare molte caratteristiche della performance. E non sempre il talento della pattinatrice è valutato visto che la Federazione invia l’imput di promuovere le atlete che siano un esempio per il Paese, privilegiando così l’immagine. Il cosiddetto “Kiss and Cry” è l’angolo della pista dove le atlete e gli allenatori si siedono per attendere i giudizi tecnico-artistici ed è un momento privato che mostra la gioia e le delusioni, al di fuori della maschera della performance.

Queste premesse sono alla base della vicenda di Tonya Harding e spiegano il modo in cui Gillespie l’abbia voluta narrare, con la macchina da presa che non lascia respirare la protagonista, con primi piani che catturano i falsi sorrisi, che nascondono rabbia e solitudine, e carrellate che la inseguono sulla pista nelle sue evoluzioni. E’ ritratto anche il famoso triplo axel, ovvero l’unico salto in cui si parte in avanti sul filo esterno sinistro per atterrare sul filo destro indietro esterno, con un’esecuzione di tre giri e che equivale a rischiare di perdere tutte le chance di vittoria con una sola figura. Nella storia Tonya Harding fu la prima donna statunitense a riuscirci durante il campionato nazionale di Minneapolis del 1991, arrivando al primo posto, e poi al mondiale di Monaco, raggiungendo il secondo posto. Successivamente non riuscì a ripetere la prova, arrivando per questo alle olimpiadi invernali del 1992 solo quarta, dietro appunto a Nancy Kerrigan, e poi ottava nei giochi olimpici invernali, ultima apparizione prima della squalifica definitiva.

Cruda e piena di violenza è descritta nel film la storia personale di Tonya Harding (interpretata qui con intensità da Margot Robbie, in precedenza la bionda esplosiva di The Wolf of Wall Street), vittima della madre LaVona (Allison Janney) che crede di aiutarla nella passione di pattinatrice con maltrattamenti e privazioni per installarle una grinta ed un interesse assoluto per la prestazione sportiva, sopra ogni esigenza fisiologica, alcun rispetto per l’avversario e qualsiasi accettazione del giudizio altrui. Anche il rapporto con il marito Jeff Gilloly (Sebastian Stan), inizialmente vissuto come un porto sicuro dagli abusi materni, si rivela altrettanto violento e malato. Cambia persino la sua storica coach Diane Rowlinson con la nuova guida Dody Teachman, per poi tornare alla prima quando per delusione aveva momentaneamente appeso i pattini al chiodo, lavorando come cameriera nella nativa Portland.

Queste vicende personali sono propedeutiche all’evento scatenante, al dramma dell’incidente, descritto nel film in maniera precisa. Vengono coinvolti il marito Jeff, un goffo e megalomane manager-guardia del corpo di nome Shawn che vuole ricercare la notorietà, due ridicoli sicari e persino l’FBI.

É sempre lo sport al centro di I, Tonya, con tutti i significati umani e sociali che veicola. In particolare in uno sport individuale come il pattinaggio artistico la dedizione esclusiva alla competizione, nella sua valenza di riscatto dalle umili origini, di noncuranza dei modi e del linguaggio, di reazione psicologica a soprusi a livello profondo si scontra drammaticamente prima con le regole non scritte di giudici attenti al messaggio sociale più che all’ambito squisitamente sportivo, e, successivamente allo scandalo, si inserisce nel circo mediatico e persecutorio di mass media onnivori senza pietà di sensazionalismo.

La donna Tonya, che ha puntato l’ago della sua vita esclusivamente sullo sport, rimane schiacciata nel momento in cui perde le sue certezze e soprattutto quando le si vieta di gareggiare. Dovrà sostituire l’adrenalina della gara, la linfa vitale della competizione con dei sostituti (cinema, musica o boxe) che non potranno soddisfarla mai, in una solitudine estrema. E’ questo il pedaggio che paga chi non coniuga altri obiettivi o meglio chi non costruisca un percorso virtuoso attorno alla performance sportiva. Il risultato, quello vero della vita e non solo della gara, nel momento in cui termina la partecipazione agonista in una pista di ghiaccio, è amaro e pieno di recriminazioni. C’è sempre in agguato un laccio che si scioglie mentre si pattina, un pensiero disturbante che affolla la mente, un pianto che sale impossibile da frenare e coprire con un sorriso quasi clownesco. Tonya in fondo nella sua estrema forza e potenza esplosiva, rimane una vittima indifesa che non ha mai avuto qualcuno che l’abbia accompagnata e fatta divertire, senza pensare esclusivamente a vincere. Chissà quanti atleti hanno avuto il suo stesso destino, ma non sono saliti alla ribalta solo perché la loro parabola non ha sfiorato il clamore di Tonya.

 

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