Il paradiso probabilmente (2019) di Elia Suleiman

A dieci anni dal suo ultimo lungometraggio (Il tempo che ci rimane, 2009), Elia Suleiman torna con Il paradiso probabilmente. Una perla di humor nero e surrealismo che, con eleganza, porta lo spettatore di fronte ai temi dell’esilio, della ricerca della propria identità e dell’appartenenza. Candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2019, è stato insignito del premio FIPRESCI quale migliore film dell’anno.

Es (Elia Suleiman), intellettuale, vive a Nazareth. E’ un uomo solo, taciturno, routinario, attento osservatore. Condivide la sua quotidianità con una pianta da appartamento e, solo se necessario, interagisce con i vicini di casa. Assiste quotidianamente ad episodi grotteschi che testimoniano l’assenza totale di un ente regolatore in territorio palestinese: il vicino che ruba i limoni dal suo giardino colonizzandolo gradualmente, le angherie di due uomini verso un ristoratore, la polizia che abusa della propria autorità nei confronti di un venditore ambulante e di una donna. Di fronte a tali avvenimenti Es si presenta, per scelta di regia, come unico testimone sulla scena.

Spinto dal desiderio di trovare uno sponsor per il suo nuovo progetto cinematografico e di fuggire dallo spazio fobico palestinese, Es decide di partire alla volta prima di Parigi e poi di New York. Purtroppo, scoprirà che, dietro un’apparente perfezione, vigono anche ad Occidente, contraddizioni sociali, uno stato di polizia e uno spazio gerarchizzato mascherato da ponti maestosi soffocati dall’energia elettrica (New York) e da donne e uomini bellissimi, nei loro abiti griffati, che sfilano in Rue Montorgueil o negli schermi delle case di moda (Parigi).

Gli incontri con potenziali società di produzione cinematografica si riveleranno fallimentari ed Es tornerà a Nazareth con una nuova consapevolezza che ben si potrebbe raccontare citando Jean Claude Izzo in Chourmo : ‘ Qui le cose non sono peggio che altrove. Né meglio’.

Il film si sviluppa con la struttura del racconto circolare, consegnando alla platea un moderno Ulisse. Tra le vie di Parigi,

passeggiando lungo la Senna, sedendo in un bar o facendo spesa in un supermercato di New York, il protagonista assiste ai paradossi della quotidianità, dove il sipario, che inizialmente si apre sulle gambe tornite delle modelle parigine, si sposta su una dimensione più umana fatta di clochard, netturbini, cumuli di bottiglie lungo i marciapiede al termine della notte, metrò sorvegliati, presidi militari, carrarmati, passanti con munizioni. In altre parole, attingendo al proprio Es, ossia alla sua energia vitale che lo spinge a conoscere l’altro da sé, l’alter-ego di Suleiman si affaccia ad un mondo “palestinizzato” in cui nulla è ciò che sembra e tutto è claustrofobico e nevrotico. Al riguardo, sono certamente significative le parole del produttore francese che, rigettando il progetto filmico di Es perché poco “palestinese”, asserisce: “ Potrebbe essere ambientato anche qui, sarebbe lo stesso.”

Quella di Suleiman è un’opera cinematografica che abbandona l’impasto di malinconia e ironia alla base di Homage by Assassination (1992) e, si affida unicamente al nonsense, all’assurdo, presentandoci un personaggio tipico della slapstick comedy.

Le scene si alternano come degli sketches apparentemente liberi, talvolta coreografici all’interno dei quali si muove l’occhio del protagonista che a tratti – si veda quando è nella stanza d’albergo con il canarino- sembra voglia rendere omaggio allo zio Hulot in Mon Oncle (1958) di Jacques Tati. La mimica facciale di Es è l’unico strumento prospettico con il quale è rappresentata la realtà. Nessun filtro alle immagini curate sino nei colori: si passa da quelli caldi dell’ebano in Palestina a quelli sgargianti di Parigi per finire con le tonalità industriali e plastiche di New York.

Con Il paradiso probabilmente, Suleiman denuncia con amara ironia da un lato, la repressione del processo di autodeterminazione del popolo palestinese che prende le sembianze di una giovane donna, vestita da angelo, con indosso la bandiera della Palestina ed

inseguita, dentro Central Park, dalla polizia newyorkese. Dall’altro, riesce a cucire una veste nuova al tipo dell’esiliato che qui si mostra curioso, alla ricerca della propria identità anche se dominato da un latente attaccamento alla terra d’origine. Tant’è vero che il muto s’interrompe solo nel momento in cui Es, interrogato dal tassista, dichiara di essere palestinese di Nazareth. Un’affermazione lapidaria, eco di una nostalgia repressa per una terra risucchiata con la forza delle armi.

La scena finale, racchiude in sé la spina dorsale dell’intero film: un pub di Haifa sovraffollato e compresso nelle note di una musica araba diventa il simbolo di un non luogo che non è solo la Palestina ma il mondo intero.

 

Di Simona Aloisio

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