Little Odessa (1994) di James Gray

James Gray ha presentato poche settimane fa al Festival di Venezia il suo ultimo film Ad Astra, che ha fatto storcere il naso a molti, venticinque anni fa vinceva il Leone d’Argento per il suo film d’esordio.

La trama in breve

New York: Joshua è un killer di professione è stato ripudiato dal padre, ha un fratello e una madre paralizzata a letto; deve tornare a Little Odessa, agglomerato di immigrati di origine russa. Qui vorrebbe rivedere sua madre e stare con suo fratello ma il padre glielo impedisce in tutti i modi. È tornato per un lavoro che gli hanno affidato, rivede anche la ragazza di un tempo, riassapora il suo quartiere e le sue radici, ma tutto è destinato a finire molto male, il boss per cui è scappato dal quartiere ora lo cerca e vuole vendetta.

Un giovane James Gray, oggi diventato un ottimo regista, al quanto sui generis, al suo esordio e con rimandi filmici molto alti; si pensi ovviamente ad un ritratto antropologico assimilabile, senza averne le capacità tecniche, a quello fatto da Scorsese verso gli italo-americani, qui Gray racconta la sua gente gli ucraini-ebrei emigrati in America.

Ma nel suo ritratto di questi ebrei erranti, almeno così li vede il protagonista, che cercano di sopravvivere in un quartiere dominato dalla mafia, proprio come il quartiere di Little Italy, si intravede anche un similitudine con l’opera di Michael Cimino, anche lui italo-americano come Scorsese; ha dedicato la sua intera carriera ai migranti e ai diversi che cercano di diventare americani, ha mostrato, soprattutto nel capolavoro I cancelli de cielo, le origini mischiate e bastarde dell’America, origini troppo spesso dimenticate. Gray prende da entrambi i maestri alcuni aspetti, del resto gran parte dei suoi film parleranno di Russi, di mafiosi e di problemi familiari, vedere I Padroni della notte, The Yards e C’era una volta New York.

Il film segue le gesta di questo killer spietato dal passato traumatico, costretto a scappare dalla sua famiglia per un delitto che non si sa se ha commesso, un delitto che ha disonorato la sua famiglia e suo padre, con cui Joshua ha un rapporto di odio; Joshua è ormai un nomade, non ha terra né casa, può solo spostarsi e seguire le rigide regole dei delinquenti, ma nel momento in cui mette di nuovo piede nel quartiere dov’è cresciuto si sente più vivo, ritorna a fare le cose di un tempo: scherza con il fratello, va al cinema, veda la ragazza che frequentava un tempo e che ama ancora, ma ormai il suo destino è segnato e con esso anche quello della sua famiglia.

La regia è misurata, segue i personaggi, ci mostra a poco a poco il quartiere, Gray si sofferma sui dettagli di una famiglia dilaniata dal dolore di un figlio che è dovuto fuggire, ma soprattutto dalla malattia della madre che sta per morire. Joshua è cresciuto con le botte del padre e ha scelto la via della malavita per fuggire da lui e ha rinnegato sia il padre sia, ancor di più, il Boss del quartiere, che ora lo insegue accusandolo dell’omicidio del figlio.

Nella scena del compleanno della nonna, con un piano sequenza che ci mostra tutta la tavolata fatta di familiari e amici di questa donna, che era a capo di una famiglia ben vista un tempo, vediamo le tradizioni e le usanze degli ucraini emigrati, ancora una volta è evidente l’importanza che ha avuto il cinema di Cimino, con Il Cacciatore, film che nella prima parte ci mostra come nessun’altro e con grande vigore, la vita difficile di un gruppo di emigrati che vivono in un freddissimo paese americano.

È un ottimo esordio quello di Gray in cui si racchiudono temi e momenti tipici del suo cinema, lo scontro familiare come detto tornerà più volte, come del resto tornerà la riflessione sulle proprie radici perse e ancora il tema della malavita affrontato nei due successivi film e le regole della strada.

Piccolo momento cinefilo da ricordare è quello dei titoli di testa con il passaggio della metropolitana, quella metropolitana di New York che ci ricorda tanti film, tanti momenti di cinema, penso solo ad alcuni: Il Braccio violento della legge, Il colpo della metropolitana e tanti altri. Little Odessa, Brooklyn si aggiunge ad una cartina topografica cinematografica in cui ogni quartiere della città ha il suo riferimento e il suo regista, in un decennio gli anni Novanta che ha saputo raccontare la grande mela in tutti modo, attraverso tutti i suoi colori, umori e tessuti sociali.

Le ultime righe le dedico al cast, capitano da un gelido Tim Roth, implacabile serial killer, ma va ricordata anche la sofferta interpretazione della Redgrave e soprattutto l’ottima prova di uno Schell ritrovato dopo anni, che qui configura la figura di un padre padrone, violento e donnaiolo di grande impatto.

In quel 1994 Little Odessa vinse il premio insieme ad altri due film, ma segnò soprattutto l’inizio di una brillante carriera, per un outsider di Hollywood che va sempre seguito e apprezzato.

 

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