Milano odia: la polizia non può sparare (1974) di Umberto Lenzi

Umberto Lenzi è uno specialista del genere e quando nel 1974 Luciano Martino gli affida la regia di questa perla, ha già affrontato tutti i generi possibili. Sceneggiato da Ernesto Gastaldi il film ci introduce la figura di un killer atipico, il meno usuale tra gli otto scelti per questo approfondimento, in questa pellicola che mischia Noir, thriller con derive horror e soprattutto poliziottesco, un mix che rende il film esplosivo.

La trama in breve

Giulio Sacchi è un ladruncolo da quattro soldi mantenuto, che organizza il rapimento di una ragazza, figlia di un ricco imprenditore. Sulle sue tracce il commissario Grandi, che ha capito tutto, anche l’epilogo tragico della vicenda.

Giulio Sacchi è un personaggio dalle tante sfaccettature, in un film che riesce bene, attraverso il genere, a raccontare l’Italia dell’epoca; Sacchi è un vigliacco eppure è scaltro, violento, sboccato, truce. Gastaldi e Lenzi o se preferite Lenzi e Gastaldi, con l’aiuto di Milian danno al ruolo una connotazione politica. Sacchi accusa tutto e tutti, la sua violenza, secondo lui e forse anche secondo gli autori, è figlia di un sistema, idea che ovviamente può essere ricondotta a quella del rapimento e non a tutte le altre vicende sanguinarie. Sacchi però è qualcosa di più che un criminale qualsiasi, è un sadico assassino, è un killer seriale, in quanto nella sua smania di ottenere il malloppo commette una carneficina da cui nessuno può salvarsi. Per capire il personaggio sono centrali due scene, quella del primo omicidio e il successivo pestaggio da parte degli ex compari, in quel momento Sacchi capisce di dover trovare un modo per uscire dalla sua condizione e in lui nasce l’esigenza di dar sfogo a tutto il rancore accumulato in una vita vissuta ai margini della società.

Il film è violentissimo, politicamente scorretto, brutale, misogino. È un tipico poliziesco all’italiana, ma c’è qualcosa di più, una commistione di genere mai riuscita, né prima né dopo, nella filmografia di Lenzi ma anche all’interno del genere stesso; le derive horror per esempio sono esemplari per potenza visiva e il sadismo e la scorrettezza di Sacchi sono ineguagliabili nel panorama del cinema italiano del periodo.

Il poliziesco all’italiana riusciva a descrivere, pur con trame rozze, mezzi spesso poveri, attori un po’ cani, l’Italia del periodo in preda e preda del terrorismo, di rapinatori/sequestratori e di una violenza irrefrenabile. Lenzi affronta il genere nel momento giusto, quando ancora vi è la possibilità di portarlo su un terreno più alto e interessante rispetto alla copia sbiadita dei film americani, che in tanti facevano all’epoca e realizza così una delle vette di questo sotto genere così seguito; tornerà ancora a girare polizieschi, ma la scintilla del film non si ripeterà e questo rimarrà uno degli apici della sua carriera di regista.

Se Fernando Di Leo ha scelto di seguire le orme dei registi americani e francesi configurando un neo-noir all’italiana, qui Lenzi si ispira più a Don Siegal e John Huston riuscendo ad eguagliare l’adrenalina dei film americani: gli inseguimenti, le sparatorie, l’intreccio, ma aggiunge al tutto una dose di sangue e scorrettezza presente in pochi film, tipica del nostro cinema, oltre che il già citato fattore politico che inquadra il personaggio per tutto il film.

Il film si ispira soprattutto a Ispettore Callaghan, il caso scorpio è tuo e, come il film con Clint Eastwood, anche questo venne ingiustamente accusato di fascismo, soprattutto per il suo finale. Il film denota anche un’evidente dose di nichilismo nel configurare un mondo marcio, dove a violenza non si può che rispondere con violenza, in nome di quella che qualcuno chiama “giustizia” o semplicemente per salvaguardare la quiete pubblica e la decenza borghese. Sacchi è nichilista, ma è anche un sadico perverso in preda alle droghe che non si pone più limiti e che è pronto ad uccidere; a differenza del protagonista di Il cameraman e l’assassino, lui sembra avere uno scopo ben preciso, ma i suoi morti sono immotivati almeno quanto quelli di Benoit.

L’ispettore Grandi, interpretato da Henry Silva, volto poco espressivo ma vera e propria legenda del genere, è il tipico poliziotto silenzioso alla Callaghan, o se volete in stile Bullitt; la sua figura avvicina sempre di più il film ai polizieschi americani, figli del western. Le musiche di Morricone ci ricordano spesso che prima del poliziottesco, è stato proprio lo Spaghetti Western il genere per antonomasia del cinema italiano.

Il ruolo di una Milano grigia e spenta è dominante e riesce a dare forza ad immagini e movimenti di macchina che sono spesso impeccabili in un film che riesce ad unire, come detto, più generi. La tensione, gli omicidi, la violenza uniscono il poliziesco al thriller e formano una strana unione in cui riecheggiano in parte il ritmo e la tensione dei primi film di Dario Argento.

Sacchi è il killer più atipico e politico degli otto scelti e il film è un gioiello da scoprire e riscoprire, pur nella sua eccessività e con le sue maniere rudi; un piccolo gioiello in cui oltre alla regia e ad una Milano affascinante, anche se non quanto in Milano calibro 9, si erige un grandioso, folle e violentissimo Tomas Milian.

 

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