Quella strana ragazza che abita in fondo al viale (1976) di Nicolas Gessner

 

La trama in breve

La tredicenne Rynn si è appena trasferita in una villetta del Maine con suo padre, il famoso poeta inglese Lester Jacobs. Lo scrittore vive recluso e si occupa di tutto la giovane figlia. Ma alla padrona di casa, la signora Hallet, qualcosa non quadra e comincia ad indagare scoprendo un segreto inaspettato.

Può un ruolo segnare ed essere allo stesso tempo precursore e alla base di una serie di ruoli futuri? Si! E parliamo proprio di questo ruolo, che anticipa incredibilmente una serie di ruoli di Jodie Foster, attrice grandiosa e abilissima, che soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e tutto il decennio Novanta è stata forse una delle attrici più brave, affidabili e concrete di tutta Hollywood.

Questo ruolo ci mostra la sua immensa bravura, e anticipa i caratteri dei personaggi di Il silenzio degli innocenti, Sotto Accusa, Il Buio nell’Anima e ci mostra la Foster, ragazzina, alle prese con una serie di personaggi che vogliono dominarla, soprattutto maschili.

Avvicinandomi dopo molto anni a questo film, ero convinto di ritrovarmi dentro ad un film per famiglie, che facesse parte ancora della fase Disney della bambina prodigio e invece, con grande stupore, lo stesso anno, quel magnifico 1976, che la consacrò al mondo con l’incredibile prova in Taxi Driver, interpreta un dramma-thriller di grandissimo livello, che si regge principalmente su la sua matura ed efficacissima interpretazione.

Siamo in un tipico paese americano e a mano-a mano alcuni soggetti si relazionano con la bambina, che fin da subito è sospetta; vogliono dominarla, modificare la sua visione delle cose, vogliono imporle un modo di essere e di vivere. Il film si dipana in due direzioni: c’è il romanzo di formazione, il procedimento di crescita di questa strana ragazza e allora per vari motivi il richiamo alle commedie in stile Disney non è poi così lontano, ma c’è soprattutto il lato noir, inquietante e prepotente.

Le atmosfere si fanno sempre più cupe, i colpi di scena aumentano, la credibilità della bambina è inattaccabile e tutto accade in una casa, ci sono solo un paio di scena di esterni e due sole scene in cui non la vediamo dentro la casa; la casa che è l’inizio e la fine dell’orrore nel cinema di genere anni Sessanta-Settanta. E allora la contrapposizione, dai toni molto sospetti, che la ragazzina ha con gli adulti, ci porta al fulcro della vicenda e l’incontro con un ragazzo darà nuovi connotati al film portandolo verso la seconda parte dove le atmosfere, nella e della casa, si faranno sempre più rarefatte, più torbide e spaventose e dove potrà entrare in scena un personaggio enorme: un giovane, pericoloso, crudele e beffardo Frank Hallet, interpretato da un magnetico Martin Sheen, che sembra ritrovare la spregevolezza e la grandezza del personaggio di La Rabbia giovane. Il confronto finale tra i due è magnificamente nero.

Gessner, regista della pellicola, è un discreto mestierante che ha diretto vari titoli di genere, qui riesce con abilità a seguire le avventure casalinghe di questa ragazzina inquietante e non sfigura nel suo compito, né nelle scene a sfondo thriller, né in quelle da dramma interiore; perché in effetti alla base di tutto c’è la solitudine di questa poco più che bambina, lasciata da sola ad affrontare un modo complesso, fatto di madri arroganti e razziste, di curiosi e di pedofili.

Proprio il personaggio di Sheen dà a questa favola nera, che tanto favola non è, quel tocco in più, è un Villan di grande livello, un uomo come tanti ma perfido, furbo e che una bambina difficilmente può battere. Il personaggio di Rynn è costruito benissimo, credibile, è una bambina forte, temprata da una vita che è diventata faticosa, paurosa e piena di momenti sconvolgenti.

Un dramma psicologico, sorretto da una colonna sonora semplice ma di effetto, aiutato dall’oscurità e dalla piattezza di una cittadina tipicamente americana che diventa il luogo di un mistero, piena di soggetti fuori controllo e c’è poi la malinconia, il dramma tipicamente da cinema anni Settanta e un ritmo che per novanta minuti non ha cedimenti.

Il cinema di genere è il cinema che sta sorreggendo l’industria in questo momento, ma vedere un film del 1976, che inizia così innocuo e che invece diventa un thriller psicologico, tutto chiuso in una casa, così efficacie, sinistro, morboso, è un piacere per gli occhi e per la mente; si esce dalla proiezione con una sensazione quasi di incredulità, per un film che sembrava così piccolo e invece racchiude in sé tutto questo, un cult assoluto, da riscoprire e rivedere.

La Foster poi è grandiosa, ha già tutte le peculiarità della grande attrice, ed è lei a reggere il film, a misurarne i toni, a portare il mistero o il dramma, quasi trent’anni dopo sarà ancora chiusa in una casa, in un thriller di alto livello diretto da Fincher, Panic Room.

Un gioiello tipicamente anni Settanta che entra ed esce dai generi, che viene contaminato da varie influenze, tra cui quella Disney, e che si dipana in maniera feroce e bellissima, con un Foster in un ruolo che l’ha segnata per sempre, al livello diegetico, più del grandioso ruolo di Taxi Driver.

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