Real Women Have Curves (2002) di Patricia Cardoso

L’America che appare in Real Women Have Curves presenta un luogo doppio realmente vissuto ed un altro immaginato. Il film del 2002 diretto dalla colombiana Patricia Cardoso, ha come protagonista l’attrice americana Georgine Ferrera, che sarà nota per la serie tv Ugly Betty. È tratto dall’opera teatrale omonima di Josefina López, messicana che all’età di cinque anni si trasferisce in USA. Ha vinto il Sundance film festival, rassegna di cinematografia indipendente voluta da Robert Redford.

La vicenda ruota attorno ad Ana García, un’adolescente messicana che vive nella zona ad est di Los Angeles e frequenta con ottimo profitto la Beverly Hills High School. Tutto cambia quando c’è la prospettiva di ricevere una borsa di studio completa per la Columbia University, la prestigiosa università privata, facente parte dell’Ivy League, che si trova a New York, sul lato dell’isola di Manhattan. Il suo futuro destinato nella sartoria guidata dalla sorella Estela (Ingrid Oliu), affiancata dalla madre Carmen (Ontiveros) che considera tale impiego la naturale collocazione per Ana, viene così messo in discussione.

L’East Los Angeles con prevalenza a comunità latina, descritto dalla regista Cardoso, non ha i tratti scontati dei molti film sui cosiddetti “chicani”, ovvero la popolazione di origine messicana residente negli Stati Uniti. Il film ha anche il pregio di non essere uno dei tanti film incentrati sui problemi che affliggono la nuova generazione di immigrati. Ana, la figlia di messicani trapiantati in America, non vive in una comunità isolata dal resto del mondo, come spesso accade, e non frequenta solo messicani. La Los Angeles che la ragazza percorre in lungo e largo, come se Real women have curves fosse un documentario, viene osservata dalla prospettiva di zone modeste ma mai misere, zeppa di scritte e cartelloni, con la colonna sonora del chiasso del traffico e delle canzoni tradizionali. E soprattutto lontana solo due autobus e una passeggiata dal verde dei quartieri alti, in una vivace capacità di identificazione con l’America che conta.

Questa duplicità di luoghi e prospettive culturali si ripresentano più volte in altri momenti di un film che parte dalla sua identità di Coming of Age Story, per poi inserire al suo interno molte altre tematiche e personaggi-chiave. A cominciare dalla signora Glass, una donna d’affari anch’essa di origine latina, che all’inizio aveva offerto il lavoro alla fabbrica di Estela come aiuto, ma in seguito deve rifiutare di dare loro in anticipo una parte del pagamento, perché deve essere dura e professionalmente yankee per riuscire nella vita, dando così ad Ana un altro modello con cui confrontarsi. Per continuare con il signor Guzman, il professore del liceo che la aiuta nell’avere la borsa di studio, intuendo le qualità di scrittrice della ragazza, anch’esso emblematicamente ispanico ma perfettamente integrato.

La lotta di Ana è innanzitutto contro la propria famiglia, in particolare la madre, intrisa di cultura sudamericana, che non esita ad appendere zampe di coniglio e a pregare tutti i Santi del Paradiso affinché la figlia impari a cucinare, a fare le faccende di casa e a cucire.  Lei la vuole nel magazzino di abiti di Estela, intenta a trovare un marito ed avere figli, tanto più che la sorella è una zitella che non si sposerà mai. Quando entra nel mondo duro dell’azienda, riluttante e propensa solo per la difficoltà di Estela a rimpiazzare quattro impiegati persi in una settimana, la ragazza entra in sintonia con tutte le colleghe dell’azienda e svolge con precisione il ruolo di stirare i vestiti e metterli sui ganci. Ma sopratutto lotta, stavolta per riscattare i bassi salari rispetto allo sfruttamento dei grandi magazzini, chiedendo i soldi a suo padre, un laborioso giardiniere delle ville dei ricchi.

Lo scontro si svolge anche sul versante amoroso, nella gestione del rapporto con Jimmy, un ragazzo yankee che ha conservato un interesse anche quando la scuola è finita. All’inizio, temendo che sua madre disapprovasse, nasconde la relazione e accetta solo l’aiuto del nonno che la spalleggia sempre. In un misto tra la protagonista de Il mio grosso grasso matrimonio greco e quella di Sognando Beckham, Real Women Have Curves sembrerebbe così essere l’ennesima conferma dell’American Dream, della terra dove chiunque con talento è in grado di emergere a dispetto di ogni avversità. Il personaggio di Ana va oltre grazie alla sua consapevolezza e serenità che le fanno accettare con fatica i complimenti, le fanno comprare i preservativi per fare l’amore e ribadire la scarsa importanza della verginità pre-matrimoniale; in pratica si mostra una ragazza già matura, fiera di sé e lontana dalle fragilità e dall’insicurezza dell’adolescenza.

Per Ana l’emancipazione dalla povertà, dai valori tradizionali e da un sistema economico ingiusto passa anche attraverso il rifiuto del culto del fisico. Il corpo femminile senza abbellimenti e artifici erotici irrompe sulla scena e dà sostanza e titolo al film. I corpi che faticano e sudano, provocando irritazione, e sudando fantasticano, anche quando fanno sognare ad una madre una maternità che invece è menopausa, o fanno scontrare una figlia ritenuta grassa da una madre che per questo muove critiche e provoca umiliazioni. I corpi che comunicano agli altri, che fanno dire ad Ana: “il mio grasso dice a tutti: vaffanculo”; che fanno spogliare mentre si lavora, mostrare cellulite, forme abbondanti e rotoli di grasso, affermando in tal modo l’orgoglio di “donne vere”, ossia la capacità di accettare sé stessi, compresi i presunti difetti fisici.

La New York misteriosa che aspetterà Ana nella propria consapevolezza di limiti, potenzialità ed ostacoli sarà dunque l’altra faccia della stessa medaglia vissuta a Los Angeles; qui si sono intraviste strade famose e fuoriserie, ma nessuna star hollywoodiana può oscurare la giovane e rotonda chicana, dall’andatura sicura e divertita.

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