Serial Mom (1994) di John Waters

Nel 1994 gli stomachevoli horror di serie Z, i thriller d’infima lega ma soprattutto la figura dei serial killer erano entrati nell’immaginario collettivo cinematografico condiviso. La mente geniale di un regista come John Waters intercetta questo filone dell’omicida seriale nel film Serial Mom (in Italia tradotto come La signora ammazza tutti) e ne esce un film divertente e stupefacente.

Il regista era già famoso per il suo cinema trash al limite dell’oltraggioso, che aveva ad esempio come musa ispiratrice Divine, un travestito obeso conosciuto fin dall’infanzia. Era reduce dalle immagini volutamente schifose ed oscene di film come Pink Flamingos (1972) e Polyester (1981), quest’ultimo in America uscito in odorama (spettatori che sentivano gli stessi odori dei personaggi). Waters aveva anche concentrato la sua attenzione sulla psicosi femminile, combinata con il crimine, in film come Female Troble (1974) e Desperate Living (1977). Con Serial Mom si dà apparentemente un momento di quiete iniziato con Hairspray (1988) e Cry-Baby (1990), coniugando tutte queste tematiche in una commedia noir; in realtà aumentano in maniera accelerata gli strali della sua ironia graffiante.

A cominciare dal titolo originale, “Serial Mom”, che gioca sulla figura del killer seriale ispirato ad una storia vera. Ciò è comicamente enunciato nelle didascalie iniziali, per poi essere giustificato come trovata pubblicitaria, come del resto il conclamato filone ispirato a oppure tratto da; l’ironia continua con la data e ora precisa che appaiono per ogni omicidio commesso. Ma il titolo ci dice anche molto sulla connotazione negativa associata all’istituzione della famiglia.

La vicenda ruota attorno a Beverly Sutphin (Kathleen Turner), una perfetta casalinga e madre di famiglia di Baltimora. Le piace cucinare, la casa è perfettamente pulita, lei è sempre ben curata e allegra e adora suo marito Eugene (Sam Waterston) e i suoi due figli Misty (Ricky Lake) e Chip (interpretato profeticamente da Matthew Lillard, di lì a poco uno dei naughty boys di Scream). Dietro questa maschera perbenista si nasconde (ma non troppo) una personalità disturbata che distrugge chiunque faccia qualcosa contro la sua famiglia. Beverly, quando non sta facendo telefonate oscene ad una vicina o corrompendo i guardiani per salvare oggetti imbarazzanti dalla spazzatura dei vicini, uccide brutalmente il cliente scortese che fa andare al lavoro di dentista suo marito di sabato, il ragazzo che rompe una relazione con sua figlia o l’insegnante che suggerisce a suo figlio di non vedere troppi film horror.

Serial Mom è un autentico calderone dove Waters inserisce elementi dissacranti e provocatori. A cominciare dalla canzone Tomorrow (per quale non bada a spese pagando 60.000 dollari di diritti), perfetta sintesi canora del mondo perbenista della provincia americana, che il regista fa cantare ad una splendida Kathleen Turner durante uno degli omicidi. Per continuare con le bambole Pee-Wee, che compaiono provocatoriamente nonostante lo scandalo sessuale che aveva colpito l’attore che le aveva create. Ci sono naturalmente i preferiti di Waters, come l’ex ereditiera Patty Hearst, l’ex pornodiva Traci Lords, Joan Rivers e Suzanne Somers che appaiono come se stessi, e la band femminile L7 che interpreta la band metal Camel Toe. I cieli tersi, azzurrissimi di Baltimora sono il correlativo oggettivo della vacuità del mondo in cui galleggiano i personaggi. Quando la protagonista difende il “nido” familiare dall’assalto di un implacabile insetto e lo stermina con tanto di spiaccicamento sanguinoso, Waters piazza il proprio nome, a conclusione dei titoli di testa.

La bella, bionda e saggia Beverly sembra una “vera” signora uscita da un serial televisivo, con l’amore per l’ornitologia, l’odio per i chewing gum, la passione per i dolci elaborati, lo scarso interesse per il cinema “perché i film sono così violenti”, ma soprattutto l’incapacità di dimenticare uno sgarbo. Ogni dettaglio del suo comportamento sociale è destinato a ribaltarsi per rivelare, in una progressione comica inarrestabile, la natura meschina ed ottusa di questa donna e dei valori ormai privi di senso di cui si fa paladina.

Waters analizza comicamente i personaggi di una provincia ritratta nei suoi deliri a base di grumi di sangue e buoni sentimenti, solo come pretesto per scagliarsi contro chi li eleva allo status di slogan buoni per ogni merchandising (vedi il fiorire di gadget e proposte di “adattamenti” televisivi che accompagna il processo).

La regia, a dispetto degli sberleffi e dello stile da commedia, è curatissima. Ad esempio la sequenza notturna in cui Beverly “punisce” una coppia di pazienti di suo marito, è una sintesi sublime d’angoscia e spasso, con un magistrale uso del montaggio alternato multiplo, unendo un orgasmo derivato dall’onanismo, un rutto e il rantolo di una vittima agonizzante.

Beverly sembra a tratti un “terminator” che, coltello alla mano, corre veloce quanto un ragazzo, guida come un pilota provetto, salta staccionate, non è mai in affanno e ha i capelli sempre in ordine. Nello stesso tempo è una serial killer “professionista”, con letture fatte con cognizione di causa, ovvero biografie e memorie di assassini famosi. Le armi dei suoi delitti sono apparentemente improvvisate, come ad esempio il cosciotto di tacchino, tipico simbolo di armonia familiare durante il Thanksgiving Day.

In questa commedia-thriller-noir-serial il vero protagonista è il potere illimitato della tv che influisce sulla coscienza dello spettatore fino a trasformare un omicida seriale in superstar; le azioni non sono più il risultato di chi porta a compimento un’intenzione, ma rimane solo l’influencer, il talk show e la foto stampata su una maglietta.

Nella nostra rassegna sulla figura cinematografica del serial killer, John Waters riesce a coniugarla con il sottogenere della donna psicopatica che ha voglia di riscattarsi e non riesce a sottrarsi al desiderio malato di “kick your ass”. La madre cattiva e nevrotica è combinata con la passione per il crimine in un autore che si è dedicato all’anticonformismo, al disgusto e alla blasfemia. Ed ha il volto di una strepitosa Kathleen Turner che dà vita ad una perfetta marionetta che sembra provenire dagli anni Cinquanta per essere catapultata nella civiltà di fine secolo. In questo perverso mondo watersiano diventa normale che gli adolescenti celebrino il crimine, che la polizia indaghi in modo cialtronesco, che in un concerto si brucino persone e le donne diventino eroine. Emblematicamente una spettatrice durante il processo alla “Serial Mum” dichiara: “Abbiamo tutti un paio di persone che vorremmo uccidere, no?”

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