The caretaker (1963) di Clive Donner

Era il giugno del 1963, quando il film The Caretaker di Clive Donner, inserito nel 13 ° Festival Internazionale del Cinema di Berlino, vinse l’Orso d’Argento come Premio Speciale della Giuria. Fu senz’altro un riconoscimento per tutto il Free Cinema. Del resto la pièce teatrale omonima, da cui è tratto il film, era stata il primo successo di Harold Pinter, dopo lo sconcertante The Birthday Party del 1958. La prima rappresentazione di The Caretaker all’Arts Theatre di Londra fu il 27 aprile 1960, con Alan Bates, Donald Pleasence e Peter Woodthorpe che interpretavano i tre ruoli rispettivamente di Mick, Davies/Jenkins ed Aston; ben presto si trasferì a Broadway, dove un giovane Robert Shaw assunse il ruolo di Aston. Da allora i tre attori affinarono le loro parti in 165 spettacoli, prima appunto di approdare al film di Clive Donner.

È stato a New York che Clive Donner e Donald Pleasence discussero l’idea di adattare l’opera teatrale a un film. Nacque la società di produzione “Caretaker Films”, composta da sei persone: Clive Donner, Donald Pleasence, Alan Bates, Robert Shaw, Harold Pinter e Michael Birkett. Poiché nessun distributore voleva finanziare il film e non si era in grado di attirare investimenti dalla National Film Finance Corporation, il budget fu raccolto con il sostegno di un consorzio, che annoverava Peter Bridge, Peter Cadbury, Charles Kasher, Elizabeth Taylor, Richard Burton, Harry Saltzman, Peter Hall, Leslie Caron, Noël Coward e Peter Sellers. Ogni membro dava £ 1.000 e tale era la loro fede nel film che rinunciarono a qualsiasi pagamento fino a quando il film non fosse andato in profitto.

Nonostante la vittoria di Berlino, il film non uscì sugli schermi di Londra fino alla sua prima proiezione a New York nel 1964, con il titolo The Guest. Il regista Clive Donner aveva iniziato la sua carriera di regista in numerosi film a basso budget, tra cui The Secret Place, sul mondo giovanile, Some People, un film su una giovane rock band, e Heart of a Child, dove incontra per la prima volta Donald Pleasence.

L’“uomo” Aston e il “giovane” Mick sono due fratelli che gravitano in una stanza arredata in modo confuso e disordinato, zeppa di oggetti disparati e variamente ammucchiati. L’azione inizia quando Aston rientra accompagnato a casa da un “vecchio” clochard salvato da un’aggressione.

The Caretaker illustra molti dei temi dominanti di Pinter, ovvero l’identità, le differenze di classe, la lotta per il potere e l’elusività del linguaggio. A ogni livello la comunicazione interpreta erroneamente le parole e le azioni l’uno dell’altro, con un effetto comico che cela sotto la superficie un profondo senso di minaccia.

La società in questo film, diversamente da molti altri del Free cinema, rimane fuori ma fa sentire lo stesso e potentemente i suoi effetti. La tristezza e la futilità di queste tre vite vuote riflettono la realtà di persone in disaccordo con il resto della società. Ogni personaggio crede in un sogno che cambierà la sua vita. Per l’anziano Davies, se solo potrà arrivare a Sidcup e recuperare i suoi documenti di identità, la sua vita sarà ripristinata, mentre Aston sogna di costruire un capanno da giardino e Mick coltiva il sogno borghese di trasformare la casa abbandonata in un attico. La società genera sconfitta e disperazione, non stabilisce relazioni di fiducia e tanto meno fa crescere l’amore e la fede negli altri. Per questo l’essere umano è una minaccia per se stesso, ma anche un pericolo nascosto in attesa di prede da catturare come un parassita. Si anticipano tutti i caratteri che saranno espressi dal film The servant.

L’origine teatrale di The caretaker conferisce al film austerità e minimalismo, con prestazioni attoriali superbe, scenari interni ed asfissianti, alcuni esterni usati abilmente come transizione tra atti e soprattutto una fotografia (del futuro regista di culto Nicolas Roeg) precisa, che penetra nella psicologia dei personaggi grazie al posizionamento della cinepresa nel posto opportuno, sfruttando i brevi spazi interni della stanza in cui avviene la storia. Il compositore Ron Grainer è stato incaricato di produrre una sequenza di effetti sonori, spesso di natura metallica, ma che includono anche il suono di una goccia che cade dal soffitto e uno squittio mentre Aston usa il solito cacciavite per aggiustare una presa elettrica. Persino le dimensioni dello schermo (non certo CinemaScope) aumentano il senso di restrizione.

Nella nostra analisi su Free cinema e ribellione sociale, mi interessano tutti gli esterni inseriti da Donner, in quanto emblematici dell’indifferenza sociale. La versione cinematografica di Donner esalta abilmente questo aspetto, in un’operazione ideologica inversa ad esempio a quella effettuata dall’italiano Edmo Fenoglio nella versione televisiva trasmessa il 21 gennaio del 1977, dove Londra diventa Milano e il “tramp” Peppino De Filippo è un emigrato napoletano che odia i “negri” calabresi, Ugo Pagliai è un toscano Aston e Lino Capolicchio è un Mick torinese. In The caretaker le passeggiate si compiono lungo una Londra fredda e spettrale e quando si incontra un passante, questi è estraneo, indifferente e sprezzante. I bar sono luoghi di associazione in cui si discrimina il diverso (lì si manifesta la problematica di Aston). L’unico tentativo di uscire dal quartiere per portare Davies a Picland, si risolve nel beffardo giro circolare del caseggiato disegnato dal camioncino di Mick.

La capacità registica di Clive Donner sta nel rendere cinematograficamente un mondo oscuro, buio e solitario dove il confinamento in una stanza squallida e malandata sembra essere l’unica via di fuga per evitare di essere ferito.

L’incapacità degli esseri umani di stabilire relazioni di corrispondenza emotiva è riflessa nel volto di Aston che vive in uno shock perpetuo da quando ha sofferto una problematica cerebrale, la cui soluzione dell’elettroshock attuata dalla società è diventata il suo vero problema. Robert Shaw ripeterà nella sua carriera questo tipo di personaggio, se si pensa che parteciperà al film The birthday party del 1968 nella versione di William Friedkin.

Anche il barbone logorroico Bernard Jenkins che accetta l’ospitalità e riceve la proposta di guardiano della casa da parte di Aston, in realtà ha come unica ossessione quella di acquisire un paio di scarpe per sostituire le sue malconce, esponendo una improbabile tessera sanitaria che rivelerebbe la sua vera identità: un senzatetto gallese che ha appena perso il lavoro chiamato Mac Davies. In realtà è semplicemente un razzista che mostra un tale odio verso la gente di colore da temere che nella casa vi abiti qualcuno di loro, considerando ciò quasi un’offesa verso se stesso. Allora ringrazia Aston, ma si fa sempre più esigente: pretende qualche soldo, un orologio, non è contento del letto che gli viene offerto e vuole che Aston gli ceda il suo. Tutto questo lo chiede quasi come un suo diritto.

L’apparizione improvvisa e violenta di Mick rompe questo equilibrio e farà emergere una battaglia a tre per il “regno” della casa. Anche Mick giocherà le sue armi, proponendogli un ruolo di designer per attirare Jenkins nella trappola ed utilizzarlo come un giocattolo di guerra tra due fratelli che chiaramente hanno vecchi conti da saldare. L’errore, il peccato che Jenkins/Davies compie è proprio quello di non mantenere le distanze in questa relazione spaziale ristretta e volersi sostituire prima all’uno e poi all’altro fratello, non considerando che sono una figura doppia, gemelli della solitudine e della follia. La pila accatastata dei giornali non può dunque essere distrutta, la valigia ritrovata è il simulacro di giochi infantili riemersi, la statuetta buddista è il nuovo Dio da adorare e distruggere. I fratelli nemici e complici allo stesso tempo sono la realtà scartata dalla società ufficiale, la ribellione che esplode a tratti ma in un implosione senza risultato. L’altra faccia di film come Saturday night and Sunday morning e The loneliness of the long distance runner.

Di Marco Chieffa

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