The last black man in San Francisco (2019) di Joe Talbot

Gentrificazione, ecco un termine chiave che si pone alla base di questo film autobiografico; l’autobiografia si rifà alla vita del giovane attore-autore protagonista, dalla vita complessa. Oggi, nel 2020, giugno, assistiamo ad una rivolta in nome del razzismo, il razzismo che è figlio di un’idea sociale ed economica molto precisa, il razzismo è basato su un aspetto economico, come qualsiasi altro aspetto della nostra vita e allora cosa c’è di più disumano, razzista e allo stesso tempo capitalista della gentrificazione?

La trama in breve 

Jimmie e Mont sono due amici veri. Mont ha un talento per la scrittura ma qualche difficoltà a interagire con il mondo, Jimmie invece, rimasto senza un tetto, è ossessionato da quella che fu la sua casa di famiglia: una costruzione vittoriana che apparteneva a suo nonno, “il primo nero di San Francisco”, e che suo padre ha dovuto vendere per i troppi debiti contratti. Benché sia abitata da una coppia di bianchi, Jimmie si offre volontariamente e unilateralmente di ridipingere le finestre o pulire il giardino della casa.

Il film, con momenti lirici, poetici, con la dilatazione del tempo e le sospensioni, ci racconta di come la bellissima San Francisco si sia negli ultimi cinquant’anni trasformata; lo stesso è accaduto a tutte le grandi città del mondo, la colonizzazione, l’invasione, il meccanismo capitalista, che negli States è legge suprema ha un effetto similare su tutti gli aspetti della vita: i più forti, cioè i più ricchi, usurpano, tolgono, distruggono, demoliscono, delocalizzano le vite e le case degli altri, dei poveri, in questo caso dei neri.

Il protagonista sembra essere un moderno (ultimo) “mohicano”, e difatti la lotta dei neri d’America assume a volte, scusate la mia fissazione per il Western, le sembianze della lotta che fu cruciale in America, degli indiani d’America nell’800. L’amarezza è alla base di questa denuncia sociale così vibrante e potente, denuncia sociale e filmica; sono il montaggio e la fotografia a raccontarci lo sgretolamento di una città che pone le basi, ormai ultimate, per un nuovo mondo, fatto di cordiali e borghesi quartieri per ricchi, mentre dilla, dall’altra parte di un ponte, di una strada, dall’altra parte, nel mondo lurido e sporco ci si ammazza.

Il film suggerisce come ancora una volta l’arte possa salvare le persone, è chiaro in tal senso il passaggio teatrale, organizzato dal co-protagonista; in quel passaggio di teatro-verità, si scava all’interno di una comunità lacerata, mostrando in maniera meta cinematografica, come il cinema possa mostrare i cambiamenti del mondo, con poesia, con riflessione, con immagini forti eppure bellissime. Il cast del film è eccezionale ed ognuno svolge al meglio il suo compito (da ricordare il sempre bravo Danny Glover), per un’opera che alla fine ti lascia molto amaro in bocca, e che è attualissima anche nelle nostre città italiane, così lontane da quella San Francisco, ma così vicine in termini di globalizzazione.

Una perla che è passata al Sundance Film Festival, poi al Festival di Locarno e che non troverà distribuzione; bisogna godersi le immagini, i silenzi, la bruttura della storia e la possibile rinascita che essa ci ispira attraverso l’arte, attraverso lo scontro frontale con un sistema che non sembra voler invertire la rotta.

Un cinema importante e bello, riflessivo ed emozionante; il giovane regista all’esordio, Joe Talbot (classe 1991) prendendo spunto dai grandi maestri delle ultime generazioni, Jim Jarmusch da una parte e Spike Lee dall’altra, realizza un film spiazzante per forza visiva e impatto concettuale, una denuncia piena di umori, colori, voci e sensazioni, una denuncia sociale che ha l’impatto di un pugno, ma che vola leggera e arriva agli occhi e alla mente dello spettatore, che viene estasiato dalla musica black, e dalle immagini sospese di due ragazzi afroamericani che girano in skateboard in questa città fantasma, in questa città irreale che ha soppiantato una città fatta di tanti colori e razze, forte della passione di più mondi, uniti nell’utopica idea di configurare un mondo migliore; il mondo in cui il giovane ragazzo viveva, lontano dallo spaccio e dalla desolazione di questi quartieri ghetto, un film che si configura in chiave indipendente come un punto di partenza, o forse di arrivo rispetto alla problematica dei neri d’America.

Di Matteo Bonanni

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