Ultimo Minuto (1987) di Pupi Avati

Ha ancora senso parlare di passione per uno sport come il calcio? É ancora così, lo è stato veramente e sarà così per sempre? Oppure, chi manifesta l’amore per una squadra e la voglia quotidiana di difenderla da tutti gli avversari è un illuso? Chi alimenta questa energia è un contrabbandiere di illusioni, o peggio un complice di profittatori senza scrupolo?

Sono queste le domande a cui tenta di rispondere Pupi Avati nel 1987, anno in cui dirige il film Ultimo minuto. Grazie alla collaborazione di molti esperti del settore (il conduttore e giornalista televisivo Michele Plastino Michele Plastino pagina ufficiale in primis, sagace nell’appropriatezza dei dialoghi), il regista tenta di illustrarci quanto amore ci sia alla base di ogni momento e di ogni componente della macchina calcio. Pupi Avati però ci mostra anche la pericolosità della situazione, lo scontro tra varie mentalità e l’illegalità che fa capolino in ogni istante per rendere tossico l’amore puro. Ultimo minuto risulta uno spaccato del tempo (gli anni Ottanta), quando c’erano gli indizi per un cambiamento ma ancora non imperava il sistema dei procuratori.

Il calcio è anche il magazziniere, con la sua silenziosa dedizione nell’approntare le divise di ogni calciatore mentre questi protagonisti stanno giocando; oppure nel rimanere pazientemente nello spogliatoio più a lungo, per aspettare la giovane promessa che vuole prolungare la seduta di allenamento.

Per continuare con i tifosi che seguono da vicino le vicissitudini della squadra, per abbracciarsi in un afflato irripetibile e spontaneo, ma anche per essere manovrati da “capipopolo” che contestano od osannano a seconda dei biglietti gratuiti che vengono elargiti. I tifosi sono dovunque, pronti a seguire ogni vicissitudine calcistica ed extra, magari lavorando come Nik (interpretato dall’avatiano Nik Novecento) in un albergo ma conoscendo meglio di chiunque tutto quello che riguarda questa squadra calcistica di provincia che lotta per salvarsi dalla retrocessione.

Il talent scout Duccio Venturi (un misurato ed efficace Diego Abatantuono) è mosso dalla passione per la sua professione, intento a seguire ragazzi di quasi diciassette anni per instradarli nel mondo del professionismo, con consigli paterni per affrontare al meglio provini infiniti. Il suo lavoro di procuratore altresì rimane al centro di interessi intrecciati di allenatori, presidenti e calciatori, in un vortice di pressioni e ammiccamenti interessati.

L’allenatore Luigi Diberti (interpretato da Claudio Corti) rimane in disparte rispetto all’onnipresenza del direttore sportivo, ma anche lui tenta di dare valore agli schemi studiati e al suo prestigioso passato di calciatore. La solitudine professionale e l’insuccesso sono da sempre l’altro volto del calcio, anch’esso in fondo prodotto da quella passione che “move il sole e l’altre stelle”.

Il presidente Renzo Di Carlo (l’ottimo Lino Capolicchio) rappresenta il nuovo che avanza, l’imprenditoria che si avvicina al calcio e vuole cambiare metodi ed abitudini, per poi accorgersi di aver bisogno delle stesse figure che vuole soppiantare, in virtù della loro conoscenza ed appunto passione.

Lo scontro centrale nel film tra passione spontanea ed interessi utilitaristici ruota attorno a tre figure principali ed emblematiche: la giovane promessa, il calciatore esperto e il direttore sportivo. In termini teatrali si potrebbe parlare di attor giovane, trombone e deus ex machina. La freschezza, la voglia di arrivare e la tenacia hanno il volto dell’allora giovane Marco Leonardi, ovvero colui che poi sarà il Maradona del film di Marco Risi del 2007. La classe, l’arroganza ma anche il senso di rivalsa e naturalmente l’inganno mefistofelico sono insieme il personaggio di Emilio Boschi, interpretato da Massimo Bonetti. Nell’altalena classica del mondo calcistico, il destino dei due si incrocia in maniera inversamente proporzionale: per un momento, tra un massaggio e l’altro, si guarderanno anche negli occhi, continuando poi la loro parabola inversa.

Ho lasciato appositamente alla fine la figura principale, interpretata dal grandissimo Ugo Tognazzi, quasi alla fine della sua carriera di attore. Walter Ferroni non è un semplice direttore sportivo, ma incarna, dà voce e muove tutti i personaggi e le istanze che abbiamo accennato precedentemente. Ha dedicato tutta la vita al club di appartenenza, anche a scapito di quella personale, anzi a volte utilizzandola come pedine per fini calcistici, prima fra tutte l’amata figlia (una splendida Elena Sofia Ricci), di cui dimentica il giorno del compleanno ma a cui tiene immensamente tanto da essere il primo sguardo che vorrebbe incrociare dalla panchina. E’ lui colui che si ferma a parlare con il magazziniere per comprendere meglio; ad essere il primo tifoso e riferimento per i tifosi stessi; a credere e legarsi al talent scout per migliorare la rosa; a sostituirsi all’allenatore, tracciando schemi e pensando alla tattica anche di notte; a scontrarsi con il presidente per fargli capire cosa sia l’essenza del calcio; a sostenere l’anziano Boschi per amore della figlia, ad essere tradito ma a correggersi alla fine; a lanciare il giovane calciatore, simbolo di un calcio pulito che come un’araba fenice rinasce inaspettatamente dalle ceneri dell’illecito e del destino avverso.

Cosa rimane dunque di Walter Ferroni, di un attore come Tognazzi che dopo tre anni ci lascerà e del calcio come è stato rappresentato da Pupi Avati in Ultimo minuto? Rimanere in panchina, sbuffando per la fatica di una vita, vedendo tutti gli altri festeggiare per una partita importante ma non fondamentale, avendo la consapevolezza di aver contribuito ad una montagna di passioni che non sarebbe potuta apparire in tutta la sua imponenza senza il personale contributo.

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