Volevo nascondermi (2020) di Giorgio Diritti

Con “Volevo Nascondermi”, Giorgio Diritti torna ad offrire al cinema una pellicola di particolare grazia ed intensità emotiva dimostrando la sua capacità di leggere l’uomo prima ancora che l’artista.

Il film, ascritto al genere biopic, ricostruisce la vita del pittore Antonio “Toni” Ligabue (Elio Germano) caratterizzata da un’infanzia tormentata dal dramma dell’abbandono, dalla ferita dell’emarginazione e dalla conseguente frustrazione; dalla malattia mentale che lo costringe ai frequenti ricoveri negli ospedali psichiatrici ma, soprattutto dalla pittura.

Il film, presentato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, ha visto l’assegnazione dell’orso d’argento per migliore attore ad Elio Germano.

 

La trama in breve

Antonio Ligabue nasce a Zurigo e viene dato in affidamento già fanciullo dopo aver aggredito la madre biologica. Fin da subito manifesta una forte violenza come risposta agli abusi che subisce nel contesto familiare ed in quello scolastico. Espulso dalla Svizzera e trasferitosi in Emilia Romagna, va a vivere in una capanna lungo le rive del Po.  In questo momento di totale indigenza, incontra lo scultore Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi) attraverso il quale si accosta alla pittura che diventa la sua più alta forma di sublimazione della sofferenza e dell’isolamento.

 

Il lungometraggio, interamente sceneggiato in dialetto emiliano, si apre con una chiusura: il pittore, seduto in un angolo, attende la visita dello psichiatra rannicchiato completamente dentro un cappotto nero. L’unico punto di apertura al mondo è la fessura dalla quale fa affacciare  circospetto un occhio. La scena crea un doppio sguardo, uno esterno- rivolto al dottore- ed uno interno che proietta lo spettatore, attraverso il flashback, nel ricordo d’infanzia quando veniva deriso e schernito dai suoi coetanei.

Si attiva una narrazione mista in cui si alternano il presente della realtà manicomiale, la memoria e l’incontro con l’arte e con l’essenza della vita.

Il tutto servito da una colonna sonora (Marco Biscarini e Daniele Furlati) struggente che calza perfettamente il racconto, ma, soprattutto, scandisce le vicende della vita di Toni.

Impossibile dividere il film in sezioni, il tempo è un insieme di tinte impastate e di ciascuna non si distingue il colore originario.

C’è, tuttavia, una linea conduttrice, ossia l’arte.  L’arte che lo affianca quando scopre la morte e l’estasi del grido senza risposta- “Dove sei?” “Perché?”- che rivolge nella notte alla fanciulla che ha perduto la vita. L’arte che fluisce quando fa esperienza d’amore per Cesarina (Francesca Manfredini) amante aspirata, sognata con la stessa intensità del poeta che, seppur non corrisposto, sosta nell’amore e lo celebra con la sua opera. Ligabue carica ogni forma della trama delle sue emozioni al punto da sfamare l’occhio con un’abbondanza di colore, di plastica materia.

La pellicola traduce perfettamente il farsi arte del pittore il quale attraverso la sua opera si libera dal vincolo primitivo con il mondo naturale e ne elabora la separazione.

Infatti, Ligabue è catturato nel momento di unione con il colore, di studio corporeo della tela, di caccia della ferocia insita negli animali che dipinge – soggetti ricorrenti sono tigri, aquile che catturano prede, lotte tra cavalli. Di questi ultimi ne ricerca l’aggressività e con essa finalmente si identifica dando sfogo all’oppressione dell’abuso subito in tenera età.

Si susseguono scene di estrema potenza espressiva rese maggiormente efficaci da una fotografia che appare pittorica essa stessa e che accompagna lo spettatore nei meandri di un mondo rurale, carico di ancestrale vicinanza tra l’uomo e la natura.

Non può sfuggire l’eco della Natura matrigna leopardiana che da e toglie con voracità e violenza. Forse, non a caso, l’interpretazione di Elio Germano, che aveva vestito già i panni di Leopardi ne “Il Giovane Favoloso” (Mario Martone, 2014), risulta intima e per alcuni aspetti magistrale. Il giovane attore accoglie di nuovo i tormenti fisici e psichici dell’uomo e il suo atto creativo, ne suggella la solitudine superata solo con l’arte e con la prossimità all’armonia originaria.

Tutto nel film anela alla libertà ed al ricongiungimento con il mondo esterno, prova ne è la scena di chiusura del film che, contrariamente all’incipit, offre un’apertura spaziale e interiore. In una scena quasi onirica, Ligabue sogna il volo. Sostituita la velocità delle sue amate moto con una veste fatta di piume, il pittore ci lascia mentre corre nella campagna emiliana.

Un perfetto ritorno in sala!

Di Simona Aloisio

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