40.000 dollari per non morire (The Gambler) (1974) di Karel Reisz

 

 

In attesa di vedere al cinema “Il collezionista di carte” (The Card Counter), l’ultima fatica del mastodontico Paul Schrader, scriviamo di un film poco conosciuto e scarsamente ricordato, che tratta in parte lo stesso tema. Parliamo di “40.000 dollari per non morire” (The Gambler) di Karel Reisz.

La trama in breve:

Il professore Axel Freed ha una passione autodistruttiva per il gioco. Ottiene dalla madre una grossa somma per ripianare un debito, ma la gioca e la perde. Minacciato dai loschi creditori, per salvarsi corrompe un suo studente campione di basket e ne fa una pedina della mafia delle scommesse.

Uno degli aspetti straordinari del cinema anni ’70 americano e non solo, è la continua e totale contaminazione. Reisz era stato prima uno dei più importanti registi del così detto Free cinema, di cui vi abbiamo già parlato,e lui, come altri provenienti dalle varie nouvelle vague del mondo, è approdato con risultati alterni al cinema americano.

Questo è il suo film d’ esordio, su un tema come quello del gioco d’azzardo che lo stesso anno viene affrontato, con altri toni, da Altman nel suo “California Poker”.

“The Gambler” è un film dal fascino poco comune. Sul tema del gioco d’azzardo, sulla pulsione verso la sconfitta, verso il dolore se vogliamo, sono stati fatti tanti film sia prima che dopo, ma questo, scritto da James Toback e prodotto da Irwin Winkler, produttore di tanti film di Scorsese, riesce a mostrare in modo intenso, drammatico, il mondo devastante di un giocatore d’azzardo che entra in una spirale senza alcuna possibilità d’uscita.

Un film come “The Gambler” può essere sicuramente alla base di quella che è una perla moderna come “Uncut Gems”. I due protagonisti sono spinti da un gusto della sfida che va oltre la comprensione. Se vogliamo confrontare, il protagonista del film del 1974 è ad un livello superiore rispetto al suo successore; non sembra più provare un sentimento, né amore per i suoi parenti, né per la sua ragazza; la sua ricerca della vittoria, o della sconfitta se volete, e infine del dolore, è sconfinata.

Il protagonista (ricordiamo che il film è ispirato da “Il giocatore” di Dostoevskij) è un uomo colto e intelligente, “crede” nelle sue sensazioni, nell’essere fortunato, nel numero giusto, abdica tutto in preda a questa febbre del gioco, con un ritmo e una violenza sempre maggiore, e neanche gli strozzini lo fanno demordere; è la sua ragione di vita.

La regia di Reisz lascia molto spazio alla prova magistrale di James Caan che si prende tutta le scena, ma allo stesso tempo è capace di momenti di preziosa cifra stilistica, soprattutto in fase di montaggio quando ci mostra i collegamenti mentali del protagonista. La scena, ad esempio, in cui chiede aiuto alla madre è un momento di grande impatto visivo.

La sceneggiatura vira su toni sempre più cupi, esistenziali, a differenza di quella di Altman in “California Poker”, che è più corrosiva, politica, ma meno sofferta e dolente.

Caan è qui nella sua interpretazione della vita, pareggiata poi da quella memorabile in “Thief” di Mann, aiutato da un cast di grande valore, su cui spiccano una brava Hutton, che in seguito eccellerà nell’importante “American Gigolo”, a proposito di Schrader. Sono da ricordare anche le prove di Sorvino e Young, in personaggi che poi interpreteranno più e più volte.

La filosofia de “Il Giocatore” viene portata sullo schermo fotogramma per fotogramma, con un racconto-ritratto morale di un uomo e di un’America corrotta fino al midollo. Non è un caso che tra le varie aberrazioni in nome del gioco e della possibilità di vincere, il protagonista ritiene il suo gesto più irreparabile quello di corrompere un giovane giocatore di basket, suo allievo. E’ questo che lo fa sprofondare nell’abisso senza fondo che lo condurrà al tragico finale.

La scena iniziale con il suo montaggio alternato, oltre a spiegarci il significato dell’indecente titolo italiano, ci mostra già i punti chiave del film; nel ritrarre quest’uomo, teso nel tentativo di vincere tra un tavolo e l’altro, sempre più contratto, destinato a perdere migliaia di dollari uno dopo l’altro fino ad arrivare alla cifra finale, il montaggio ci restituisce il fervore del gioco, l’adrenalina tossica del giocatore incallito. L’intero film seguirà in maniera coerente questo incipit fino in fondo.

In questo correre da una parte all’altra, da una scommessa sul basket ad un tavolo da gioco, che poi vedremo e vedremo ancora in tanti film che seguiranno, c’è una drammaticità, una libertà visiva, una potenza di immagini significative e poetiche con pochi simili nel cinema dell’epoca e di oggi. “The Gambler” colpisce per la sua durezza e schiettezza, per il suo ritratto di un giocatore, di un borghese senza più voglia di vivere ma soltanto di vincere/perdere.

Ci sarà nel 2014 un seguito, ma è tutta un’altra cosa; mentre questo gioiello di Reisz, regista di origine ceca che ben capisce anche quei passaggi familiari che animano “The gambler”, è un film febbrile, visivamente eccellente, interpretato da un Caan in stato di grazia per capacità attoriale.

È uno di quei gioielli nascosti di un cinema così distante da quello di oggi, dove le storie, gli autori, e registi, oltre che gli attori, avevano la possibilità di esprimersi al meglio.

Un film da recuperare assolutamente, che ci spiega la complessità dell’uomo e quel voler sfidare e sfidarsi all’infinito anche fino alle estreme conseguenze, ambientato in una bellissima New York.

 

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