Cop land (1997) di James Mangold

Fine anni ’90. Il Western sembra aver ceduto il passo, definitivamente, dopo anni di rilettura (Geronimo, Wyatt Earp ecc.) ed un capolavoro totale (Gli Spietati); ma ancora una volta rivive dentro al poliziesco/noir e a volte al thriller.

Mangold al suo secondo film (poi realizzerà un western “vero”, ovvero Quel treno per Yuma,  e ad un altro neo-western intitolato Loogan) ci regala una storia che sembrerebbe, in parte lo è, scontata eppure è piena di spunti e motivi per (ri-)vederla.

La trama in breve

Non c’è del marcio solo tra i poliziotti di Los Angeles. Anche quelli della East Coast non scherzano: a Garrison, New Jersey, appena passato il ponte di New York, abitano un sacco di sbirri che da qui controllano i loro sporchi affari. Ma lo sceriffo del paese, Freddy, mezzo sordo, si ribella.

Una piccola cittadina accanto a New York, il fiume e il ponte a separarle; un posto di e per poliziotti dove tutto e nulla succede.

Come nei western moderni, buoni e cattivi si mischiano in parte, non c’è più una divisione netta; il nostro protagonista difatti da anni fa finta di non vedere e capire, oltre che sentire (essendo sordo da un orecchio), vigila senza far nulla. Se vogliamo è anche un protagonista in stile “spaghetti western” dove l’eroe passa sempre per una menomazione fisica.

Mangold, che scrive e dirige, è già un regista capace alla sua seconda regia; in grado di tenere unito il tessuto narrativo, di dirigere un cast di all stars, ma anche di regalare piccoli momenti di poesia; il western come detto sta soccombendo, si insinua negli altri generi, ma con questa trama il rischio retorica e la ripetizione sembrano essere dietro l’angolo.

Il poliziesco moderno anni ’90 è già in preda al cinismo dei nuovi pupilli del cinema americano (Tarantino su tutti), si inserisce, portandosi tra l’altro nel cast sia Liotta che De Niro; senza scomodare o citare grandi maestri (Scorsese) non è semplice, ma il regista sceglie la sua strada. E’ per questo che ci racconta i personaggi  poco a poco.

Da una parte abbiamo dei poliziotti corrotti, spietati, pronti a tutto per difendere la loro terra (come i proprietari terrieri del western classico); dall’altra assistiamo all’esempio di un poliziotto “buono” (De Niro) o comunque distante dalla terra di questi poliziotti corrotti; e infine ammiriamo il protagonista. Questi è un uomo senza una vita o quasi, che voleva essere un poliziotto ma non lo è, voleva essere aitante ed è menomato, ama una donna che per giunta è sposata con un altro.

È uno di quei sceriffi (il miglior Stallone dai tempi di Rambo) del western, messo lì per aiutare i capi della città, per far finta di tenere l’ordine; lo zimbello, grande e grosso, di turno.

In questo scenario, il caso del nipote del piccolo boss non può che sconvolgere questo (non)equilibrio, e il meccanismo che si crea porta al caos generale; i morti aumentano, la violenza anche, non c’è più ordine nell’iniziale disordine della vita della piccola città.

Mangold sa bene che tutto si giocherà nell’atteso finale, non ci sono particolari sorprese o turning point, i personaggi sono sviluppati e i momenti per capire la personalità triste del nostro antieroe sono vari (la scena in cui si addormenta ascoltando Bruce Springsteen è degna di essere ricordata); e quando arriviamo al finale sappiamo che dopo anni di soprusi e prese in giro il nostro protagonista non può che reagire.

La scena della “reazione” con la sparatoria vista in parte attraverso la soggettiva “sorda” del protagonista è da antologia del genere; l’arrivo poi in città ricorda tanti western classici ma anche, in un film diametralmente opposto ma pur sempre un neo-western, L’uomo nel mirino di Clint Eastwood.

Dialoghi intelligenti, una regia capace, il classicismo dietro l’angolo eppure riletto con intelligenza, un cast sontuoso dove tutti sono a loro posto: Liotta al solito spiritato, De Niro contenuto e maniacale, Keitel pur senza far nulla nel suo periodo d’oro e il miglior Stallone, nel senso attoriale del termine, dai tempi di Rocky (il primo).

Non è il più alto risultato del “neo-western” anni ’90 che forse spetta a Stella Solitaria, ma un piccolo cult capace di regalare emozioni cinefile, intrattenimento e con un piccolo, innocuo, messaggio di fondo; certo il finale in cui ci si illude che esista una giustizia è molto “Hollywood”.

Il protagonista è dunque un ex “eroe” che ha accettato la paga salariale, diventando un cinquantenne imbolsito. Fa effetto vedere Stallone così, incarnando l’emblema della fine dell’eroe anni’80, che proprio Stallone interpretava. Il mondo è definitivamente cambiato, le storia anche e infine persino gli eroi “reaganiani”; la realtà, pure ad Hollywood, è un’altra.

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