Trilogia di Clint Walker/Gordon Douglas

Di Jacopo Wassermann

Meno prestigiosa della trilogia del dollaro e del ciclo di Ranown, la “trilogia di Clint Walker,” firmata dal mulo da soma Gordon Douglas, merita lo stesso la considerazione di ogni cinefilo che si rispetti. Douglas non gode della stima riservata ad altri suoi contemporanei (Fleischer, Mann, Siegel, Wise, Hathaway…) e, ad essere onesti, il livello complessivo della sua opera non può competere con il meglio della tarda Hollywood classica. Ciò non toglie che Them! (forse il suo miglior film) sia una delle vette della fantascienza atomica degli anni ‘50, e che Only the Valiant (con Gregory Peck nel ruolo principale) sia un western d’assedio fenomenale nella costruzione della tensione e dello spazio filmico. Anche i suoi lavori più modesti custodiscono virtù per nulla scontate: basti pensare che lo stesso Tarantino gli ha prestato un velato omaggio, includendo un breve estratto de Lady in Cement nel suo Once Upon a Time in…Hollywood.

Il culturista Clint Walker incarna alla perfezione l’ideale estetico di Douglas: di poche parole e con un fisico che straborda dai margini dello schermo, possiede al contempo un agio virile e un’attitudine stoica che lo rendono perfetto per affrontare le vicissitudini della frontiera. Meno versatile di Clint Eastwood e Randolph Scott, l’esiguità della sua filmografia riflette la limitatezza dei ruoli alla sua portata. Tuttavia, nelle mani dell’esperiente Douglas, diventa uno strumento sufficientemente intonato, raffinando il proprio gioco ad ogni loro collaborazione.

La “trilogia” è composta da Fort Dobbs (1958), Yellowstone Kelly (1959) e Gold of the Seven Saints (1961), avendo in comune soltanto regista, attore principale, e qualche altro elemento della troupe (come lo scenografo Stanley Fleischer e il regista della seconda unità William Kissell). Alla fotografia, troviamo pezzi fortissimi del genere western, e non solo: William H. Clothier (già collaboratore di Ford e Boetticher), Carl E. Guthrie (veterano della serie B) e Joseph F. Biroc (Capra, Aldrich, Fuller…), i quali apportano competenze fondamentali per far fronte ai diversi requisiti di ciascuno dei capitoli (l’Academy ratio in bianco e nero di Fort Dobbs, il processo Technicolor di Yellowstone Kelly, e l’immagine panoramica WarnerScope, nuovamente in bianco e nero, di Gold of the Seven Saints).

Le sceneggiature portano la firma di due pesi massimi: Burt Kennedy (già romanziere e sceneggiatore per Boetticher, diventerà presto uno dei registi americani più prolifici del western crepuscolare) e Leigh Brackett (per dirne due, The Big Sleep e Rio Bravo – ma seguiranno The Long Goodbye di Altman e persino una prima stesura di Empire Strikes Back). Di nuovo, due sensibilità profondamente diverse: Kennedy esibisce la sua caratteristica poetica da duro, con battute secche e lancinanti («In other words, you refuse.» «In any words, I refuse.»), mentre Brackett opta per uno sviluppo più metodico e a tratti sorprendentemente moderno (la distesa sequenza ambientata nel Rancho Gondora di Gold of the Seven Saints anticipa per certi versi l’edonismo fatale del Peckinpah di The Wild Bunch e Pat Garrett & Billy the Kid).

Nell’insieme, i tre film evidenziano la sapiente economia di un regista abituato a servirsi di poche risorse per trarne il massimo vantaggio. Nel primo rullo di Fort Dobbs, Walker entra in una capanna di legno pronto a impugnare una pistola. La macchina da presa si avvicina con un carrelata, restandone al di fuori, e termina il movimento accanto alla finestra di fronte. Dall’interno della capanna risuonano gli spari e un proiettile attraversa la finestra, frantumandola. Pochi istanti dopo, Walker attraversa l’uscio illeso e si allontana a cavallo. L’economia della messa in scena non è dovuta soltanto a considerazioni di ordine produttivo: più tardi, il personaggio di Walker rivelerà di aver reagito in autodifesa, dissipando il dubbio (alimentato dal fuori campo) che si potesse trattare di un assassinio a sangue freddo.

Sempre in Fort Dobbs, nel corso del secondo rullo, Walker e Virginia Mayo si trovano assediati in una capanna da un gruppo di comanche. Una straordinaria soggettiva, veicolata nuovamente dall’uso di un carrello, restituisce la prospettiva dell’energumeno mentre studia con cautela la posizione dei comanche all’esterno della baita. La cinepresa scivola da un lato all’altro della finestra, simulando lo spostamento dell’attore, e si serve dell’inglesina frantumata per creare un senso di profondità e, al contempo, comporre un conflitto grafico all’interno dell’inquadratura. La medesima disposizione è riutilizzata poco dopo per raffigurare il passaggio del tempo, limitandosi in questo caso ad aumentare la focale per ridurre la luminosità dell’immagine. In questa scelta si ravvede il pragmatismo consumato del regista: una carrelata è un movimento estremamente dispendioso, e non ha senso realizzarlo se non riduce significativamente il carico di lavoro della troupe.

L’ingegnosità di Douglas si manifesta anche nel modo in cui visualizza le relazioni di potere fra i personaggi servendosi di riprese dal basso. Yellowstone Kelly ne dimostra un uso drammaticamente efficace, enfatizzando il complesso intreccio di alleanze, legami e desideri conflittuosi tracciati dallo sceneggiatore Burt Kennedy. Circa a metà film, Walker e il suo protetto Anse Harper (interpretato da Edward Byrnes) devono sorvegliare la principessa arapaho Wahleeah (interpretata da Andra Martin) per conto del capo sioux Gall (l’icona western John Russell), cui è destinata. Walker è un cacciatore bianco tollerato nelle terre dei sioux, e desidera mantenere tale privilegio; Anse è attratto da Wahleeah, ma la sua giovinezza declina l’erotismo in un ideale. In un momento chiave, ripreso per l’appunto dal basso e in profondità di campo, con Martin in primo piano e Byrnes in secondo, Wahleeah si rende conto dell’infatuazione del giovane e di come se ne possa servire per tentare la fuga. Il fatto che Martin gli dia le spalle, e che lo spettatore abbia la facoltà di seguire entrambi gli interpreti allo stesso tempo, crea uno squilibrio nella distribuzione di potere e informazione all’interno (e all’esterno) del piano, rafforzando in questo modo la caratterizzazione dei personaggi. Una disposizione simile si ripeterà poco dopo con lo stesso Walker, esasperando l’angolazione per ottenere un effetto ancora più marcato.

Un western non può essere pienamente convincente se non dimostra un occhio acuto per l’ambiente in cui si svolge l’azione, e anche qui Douglas non delude le aspettative. Grazie all’uso del WarnerScope, Gold of the Seven Saints è forse il lavoro più impressionante del regista sul panorama americano. L’uso del bianco e nero è magistrale e, paradossalmente, un altro tratto distintivo della sua modernità: a dimostrarlo ci sono altri “western” contemporanei come The Misfits (John Huston, 1961), Lonely Are the Brave (David Miller, 1962) e Hud (Martin Ritt, 1963), anch’essi in bianco e nero e (ad eccezione del primo) in formato panoramico. Verso la conclusione del primo rullo, una carrelata laterale barcollante segue l’andamento di Walker e del suo collega prospettore Shaun Garrett (un curiosissimo ruolo giovanile di Roger Moore) mentre attraversano a cavallo le distese rocciose dello Utah. L’abisso che si apre letteralmente ai loro piedi, la profondità di campo cristallina e l’unità di movimento, trasformano un’altrimenti dimenticabile transizione in una scena mozzafiato, a dispetto – o meglio, soprattutto a causa dei sobbalzi del carrello sul terreno accidentato della scarpata.

Come si è già detto, non si tratta di film esenti da pecche formali e banalità narrative o discorsive di vario genere, soprattutto per quanto riguarda i personaggi femminili e quelli dei nativi. La conclusione della trilogia, Gold of the Seven Saints, è anche il film più consistente proprio perché tralascia completamente gli indiani e include un solo ruolo secondario femminile (interpretato dall’italiana Letizia Novarese, alias Letícia Román), che sfugge almeno in parte alle norme conservatrici della damigella in pericolo (e qui l’apporto di Brackett alla sceneggiatura ha sicuramente avuto la sua parte). Fermo restando che questi film corrispondono a un capitolo minore nella storia del genere, sarebbe un errore sorvolarlo in toto, sprezzandone l’inventiva e la solidità formale. Il cinema è fatto anche di “trilogie di Clint Walker,” costellazioni ormai dimenticate che, allineandosi, risplendono di un bagliore inaspettato e folgorante.

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