The palace (2023) di Roman Polanski

Di Marco Chieffa

E dimmi che questa non è poi la fine del mondo
E dimmi che ancora riponi speranze su me
Anche stanotte per strada le luci si accendono
Anche stavolta la fine del mondo non è

 Jerzy Skolimovski è senz’altro uno degli uomini di cinema più capaci di approntare un progetto cinematografico che sia perfettamente in linea con il budget prefissato e la location da considerare. Nel caso dello splendido “The palace” ha pensato alla sceneggiatura, visto che il suo compatriota Roman Polanski ha mirabilmente gestito la regia del film. L’espediente narrativo sfruttato è quel coacervo di stupide paure collegate al Millennium Bag, l’irrazionale fine del mondo percepita il 31 dicembre 1999. Il tutto inserito nel Palace Hotel della svizzera Gstaad, già conosciuto da Polanski stesso. Il meccanismo perfettamente congegnato per ritmo, azione, rimandi politico-culturali è tutto nell’incipit. Il deus ex machina dell’albergo redarguisce ed indirizza il personale:

“Alle otto in punto ceneranno ai nostri tavoli delle persone davvero importanti. Le vite di milioni di persone dipenderanno dall’umore con cui questi se ne andranno la mattina dopo. È nostro dovere assicurarci che non gli si atrofizzino le chiappe perché le sedie sono troppo dure, che si rimpinzino di caviale fino a esplodere e che lo champagne gli esca dal naso e dalle orecchie. È chiaro?”

Si capisce fin da subito che ci saranno dei problemi, sintetizzati icasticamente dal naso colante di Tonino, il concierge di riferimento, interpretato da Fortunato Cerlino. Per prima cosa è da analizzare bene l’organizzazione interna e piramidale dell’albergo, metafora senz’altro dell’organizzazione sociale. Al direttore Hansueli Kopf (Oliver Masucci), punta estrema della piramide, devono dare conto i responsabili di settore, alla receptionist, alla cucina e alle stanze. Subito dopo appaiono i manovali degli ordini impartiti, ovvero la stuoia di cuochi, camerieri, centralinisti, operatori di lavanderia, camerieri ai piani, facchini, idraulici… Fin qui nulla di nuovo rispetto agli altri film del genere. Quello che lo differenzia (occorre sottolinearlo, anche se è come scoprire l’acqua calda che molti, pare, non conoscano, per strani motivi) è la cultura e l’intelligenza dell’intento narrativo e registico del progetto. La capacità di dotare ogni scena, per come viene composta, per il ritmo interno e rispetto alle altre scene, di plurisemanticità e allegorismo, quasi alla stregua di un’opera medievale.

Da sempre il denaro è considerato – erroneamente e ipocritamente – lo sterco del demonio. Da tanto il caviale e lo champagne assurgono a simboli di raffinatezza ed esclusività. Da poco tempo Putin è visto come il non plus ultra dell’antidemocraticità e guerrafondaismo. Da ora e per sempre gli eventi naturali sono dotati eccessivamente delle colpe dell’uomo occidentale. E che gli animali, che vivono con noi, sono intesi come accompagnamento coatto alle nostre vite quotidiane. E i nostri medici con loro. Ebbene tutti i luoghi comuni, comprese le visioni interclassiste, in “The palace” vengono messe alla berlina, ridicolizzate, sconfessate ma senza dare giudizi estremi e assoluti. La leggerezza, puramente cinematografica, nasconde continuamente complessità, brividi, disgusto e smacchi.

Gli ospiti dell’albergo vivono le loro più o meno assurde vicende, sempre coadiuvati e seguiti in maniera complice dal direttore. Ma, come in un mondo a parte, il personale esegue gli ordini senz’altro per soddisfare le esigenze dei signori, ma lasciandosi un “cantuccio” di libertà, nel quale poter anche disubbidire (lasciare ad esempio il sale giudicato eccessivo) e vivere, nei ritagli di tempo, in maniera verace e divertita, anche la festa del capodanno (gli inservienti e gli scagnozzi dei malviventi russi festeggiano in una stanza). Alla fine anche il congierge si distende per un attimo dalle sue incombenze vedendo, con un bicchiere in mano, il monitor di controllo; come lo stesso direttore deroga in via eccezionale dall’ultima grave istanza (salvare il governatore russo Anton chiuso senza speranza nel caveau, assieme alle valigie zeppe di soldi), fumando con il suo accendino a forma di pistola.

Come in un carnevale bachtiniano, dove il comico nasce dal contrasto tra alto e basso, tutto procede con ritmo serrato. Anche la “regoletta” dell’esclusività della serata, ribadita comicamente ad un signore che sbaglia albergo, come sempre non ha valore assoluto, soprattutto di fronte all’abbronzato e conosciuto Mr Crush (Mickey Rourke) con tanto di parrucca bionda, a cui vengono proposte, a mò di gag, una stanza e un tavolo arrangiati e mai del tutto accettati. Del resto la sua missione è ben precisa: frodare le banche sfruttando il caos informatico di fine millennio. Il tutto con la complicità del banchiere Caspar Tell, invitato in incognito e neofita della frode e dell’ambiente ricco, che si appresta a vivere intensamente per una notte. L’alcol e la droga ribalteranno i destini dei due, tra champagne pregiato annata 1938 per il proletario, e per il ricco ecco il figlio cecoslovacco segreto (metafora della brutale invasione sovietica di Praga del 1968), con tanto di moglie e nipotine stile Overlook Hotel. Proprio la bontà e l’ immediatezza di questa semplice famiglia, i cui palloncini si mischiano a quelli argento ed oro dell’albergo, procurerà per contrappasso un infarto al brutale padre fedigrafo. Manca dunque nel film la Polonia di Polanski e Skolimovski? Forse sì, ma anche no se ci si ricorda l’Ubu Re, dove il regno è in Polonia, ovvero da nessuna parte.

In questa serata carnascialesca che scatena ripetutamente una mise en abyme, i medici usano l’alcol per disinfettare le mani e ridurre una frattura al naso (il cerotto messo sopra rimanda al Jack Nicholson del polanskiano Chinatown). Oppure da esperti di plastica facciale, come il dottor Lima (Joaquim de Almeida), con tanto di moglie in pieno Alzheimer ma con lampi di ricordi porno (la maggior parte degli avventori sono stati suoi clienti, compresa la Sidney Rome che, interpretando Mrs Robinson, ricompare simbolicamente trasformata dopo l’avvenenza e la nudità del film di Polanski What?) devono  diventare veterinari, curando le problematiche intestinali di un cagnolino. Come in Brazil di Terry Gilliam, l’ossessione per la giovinezza e l’aspetto fisico è dunque preponderante in The palace, con annesso l’abuso di una chirurgia estetica talmente invasiva da trasformare i soggetti operati in ridicole maschere di silicone.

Anche il volto di Putin che, dallo schermo di una tv, parla di democrazia, accettando il testimone da un Boris Eltsin che sembra aver bevuto una delle tante bottiglie di champagne del film, passa inosservato davanti agli occhi di Anton e dei suoi sicari, con tanto di prostitute ex modelle; tutti sono ben più interessati al contenuto delle valigie che portano al sicuro in quella festa, lontana dalla Russia da cui fuggono.

Non passa una migliore serata l’ex porno divo super dotato di nome Bongo (Luca Barbareschi), che nei tempi d’oro aveva assicurato “il pene gli dava il pane”, ed ora rimane un divo in pensione ammirato da tutti i presenti.

Persino l’ultramiliardario texano Arthur Duncan Dallas III (John Cleese) di 97 anni, che vive per la sua moglie giovane ventiduenne, molto in carne, di nome Magnolia, tanto da portargli in regalo un pinguino, non ha migliore fortuna. Dopo la scena di incastro sessuale conseguente al rigor mortis, (alla stregua del Takashi Miike di Visitor Q, o più prosaicamente di Weekend con il morto), il suo corpo morto diventa solo un ingombro da far apparire vivo allo scopo di acquisire l’eredità; in realtà è già dimenticato dalla sua giovane moglie, diversamente dalla splendida collana e soprattutto dall’eredità che scatterà allo scoccare della mezzanotte.

Come è dimenticato il pinguino, lo è anche il cagnolino della marchesa interpretata da Fanny Ardant, anch’essa in “maschera” di bellezza, che accantona tutto per accogliere in stanza il prestante idraulico, a cui da un appuntamento d’amore, previa lauta mancia naturalmente. Polanski sembra mettere così in scena, con ironia, la cosiddetta sindrome dell’idraulico polacco, come era stata definita la paura euroscettica (soprattutto da parte francese) rispetto alla liberalizzazione della prestazione dei servizi all’interno dell’UE, dopo l’ingresso di paesi più poveri in cui la manodopera costava molto meno che in quelli più ricchi.

I due animali allora si consoleranno tra loro. Del resto l’interesse per gli animali da parte di questi rappresentanti della società umana è lo stesso che viene destinato alla natura, all’inquinamento, allo scioglimento dei ghiacciai: l’unico esempio tangibile di questa ennesima emergenza è la scultura in ghiaccio con la scritta 2000, che alla fine della fiera lascia il suo stato solido.

La sfida intrapresa da Pawel Edelman, lo storico direttore della fotografia alla sua sesta collaborazione con Roman Polanski, di adattarsi alle riprese nel vero hotel, e non in un set preparato, è stata mirabilmente vinta. Così come il lavoro dello scenografo Tonino Zera e del costumista Carlo Poggioli. Alcuni momenti dell’hotel visto da fuori, costruito in computer grafica, assurgono brechtianamente al compito di straniare la visione e considerare la vacuità e l’alterità della visione rispetto alla realtà.

Cosa ci rimane di questa festa di fine millennio? L’immagine locandina simbolo del film, ovvero la moglie del funzionario russo che rovinosamente cade, dopo aver bevuto numerosi bicchieri di alcol, su un piatto di caviale. Del resto poco dopo la stessa, dimentica dell’assenza del marito, vomiterà copiosamente fuori dalla limousine.

 E dimmi che questa non era la fine del mondo
E che la fine vorresti guardarla con me
Anche stanotte per strada le luci si accendono
Anche stanotte la fine del mondo non è
Altre persone in questo momento si scelgono
Anche stavolta la fine del mondo non era

[Enrico Ruggeri, La fine del mondo]

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