The Passion of Martin (1990) di Alexander Payne

Di Jacopo Wassermann

Una visione odierna di The Passion of Martin, progetto di tesi di Alexander Payne presso la UCLA, non può non far venire in mente altri “primi tentativi” di grandi nomi della storia del cinema: Fear and Desire di Kubrick, Who’s That Knocking at My Door di Scorsese, Eraserhead di Lynch, Permanent Vacation di Jarmusch e, più tardi, gli esordi di Refn, Nolan e, perché no, anche quel pazzo di Aronofsky. Tutti profondamente diversi fra loro e di alterna qualità, senza dubbio, ma accomunati da una ingenuità e ingegnosità distintive dei rispettivi autori.

Un altro tratto condiviso, sebbene mutuato secondo la cifra stilistica e l’inquadramento storico di ciascuno di loro, è una modernità estetica, manifestata dall’uso di elementi di distanziamento drammatico e decostruzione ironica di generi convenzionali.

In altre parole, si tratta di opere che non potrebbero esistere al di fuori del XX secolo.

Basta fare un paragone con gli esordi degli ultimi vent’anni per rendersene conto: gli autori emersi nel nuovo secolo tendono a privilegiare un’identificazione, talora una sovrapposizione fra soggetto e stile, che mal si adegua ai narratori inaffidabili e alla provocazione sarcastica dei loro predecessori.

Questa traiettoria si riscontra all’interno della filmografia dello stesso Payne: c’è un salto innegabile che porta da Election (1999) ad About Schmidt (2002), e nonostante il regista abbia lamentato l’assenza di un cinema americano di vocazione politica in occasione di un’intervista rilasciata nel 2003 (https://www.filmfreakcentral.net/ffc/2003/06/this-is-alexander-he-makes-movies-ffc-interviews-alexander-payne.html), sarà solo con Downsizing (2017) che tornerà a fare satira di rilevanza contemporanea.

The Passion of Martin ci riporta a un momento chiave del cinema americano, fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, quando la produzione indipendente si istituzionalizzò secondo canoni industriali. Fu in quegli anni che Sundance divenne l’evento che oggi conosciamo, e che compagnie come la Miramax e la New Line definirono le linee guida del successo indie. Nel frattempo, lo scenario è cambiato, ma solo come variazione ed esasperazione di quello stesso modello.

La prova registica di Payne dimostra conoscenza dei requisiti formali del mercato di riferimento. Impossibile ignorare la coincidenza della sua partecipazione al festival di Cannes, dove due anni prima Soderbergh aveva vinto la Palma d’Oro per l’esordio sex, lies and videotape – evento che fissò indelebilmente le ambizioni di una nuova generazione di cineasti (laddove la decantata vittoria di Pulp Fiction si limitò a confermare uno stato di cose ormai consolidato).

In The Passion of Martin non ritroviamo l’intensità eccentrica o polemica che distingue fin dagli albori i lavori di Lynch, Jarmusch, Van Sant e Spike Lee, e che appare invece più marcatamente nei suoi contemporanei Araki, LaBute, Linklater, Zwigoff e Solondz (omettendo Kevin Smith e Tarantino, perché costituiscono un caso a parte). C’è invece un tentativo, a suo modo utopico, di ritrarre soggetti normalmente aborriti dal cinema hollywoodiano, servendosi però delle sue formule e figure retoriche – e qui specifico “hollywoodiano” per due ragioni: l’appartenenza di Payne alla UCLA, e la sua distanza dalle strategie sperimentali di molti colleghi della Costa Est. Non è un caso che alcune delle fonti di ispirazione da lui ammesse siano proprio Lumet, Scorsese, Allen e Bogdanovich, cineasti che si riappropriarono della tradizione classica in modi estremamente personali.

A partire dal titolo, l’esordio di Payne suggerisce un intento ironico: più che dal protagonista, la Passione è sofferta dalla malcapitata Rebecca (Lisa Zane), condannata a realizzare le fantasie romantiche del fotografo Martin (Charlie Hayward) contro la sua volontà. La duplice valenza della messinscena è resa evidente, non solo dagli eccessi del personaggio principale, ma anche dallo scollamento ripetuto fra immagine e narrazione. Ciò nonostante, allo spettatore non è mai concesso di separarsi completamente dal punto di vista di Martin, tanto da far sorgere il dubbio che lo stesso Payne possa, in quanto autore, condividerlo almeno in parte.

Questo specifico aspetto mette in risalto la già accennata differenza di sensibilità che si è attuata dagli anni ‘90 a oggi, nel cinema indipendente americano e nell’opera di Payne: ciò che all’epoca sembrava provocatorio e inedito risulta compiaciuto e grottesco. La neurosi di Martin fa ridere forzatamente, poiché va alle spese dei personaggi attorno a lui, e non cogliamo una critica sociale o politica che si estenda al di là del dramma – sicuramente un riflesso della disillusione pseudo-nichilista che caratterizza la Gen X. Si pensi, viceversa, al modo in cui Scorsese e Schrader avevano gestito una simile dissociazione drammatica e spirale ossessiva in Taxi Driver.

Questi paragoni possono sembrare ingiusti, o immotivati. Nessuno si sognerebbe di equiparare il cinema di Scorsese, così come lo conosciamo oggi, a quello di Payne. Occorre considerare, tuttavia, la percezione dell’epoca: Scorsese era un sopravvissuto della Nuova Hollywood, e uno dei pochi riferimenti di successo e integrità per le nuove leve. È possibile riscontrare la sua influenza, per esempio, su Spike Lee, un cineasta a sua volta profondamente diverso il cui debutto, She’s Gotta Have It, segnò un’importantissima tappa per l’affermazione del nuovo cinema indipendente americano. Questi furono alcuni fra gli astri che indicarono il cammino ad aspiranti registi come Payne, il cui uso punteggiato del carrello e della dinamica fra voce fuori campo e montaggio in The Passion of Martin ha molto a che vedere con il duo Scorsese-Schoonmaker.

Il mio obiettivo, quindi, non è sminuire Payne rispetto ai suoi colleghi, ma semplicemente situarlo in un contesto produttivo allargato per meglio enfatizzare la sua specificità. E se è vero che il suo lavoro non possiede una forte motivazione politica, è altrettanto vero che non indugia nella furberia dei congeneri Wes Anderson, Noah Baumbach e Jason Reitman, emuli di uno stile (chi più chi meno) che si può ricondurre anche a lui.

Il principale merito di The Passion of Martin, specialmente nel contesto di una retrospettiva, sta nella sua germinalità, nella presenza in potenza di ciò che sappiamo verrà a seguire, nel modo in cui Payne è riuscito ad accomodare quel potenziale ai mezzi di un film di studente. Lascia trapelare una visione, e insieme la Passione che ci sta dietro.

 

P.S. Il film, un medio metraggio, è disponibile in alta definizione su YouTube, seguendo questo link: https://www.youtube.com/watch?v=l_mnKlalvWo

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