Paura su Manhattan (Fear city) (1984) di Abel Ferrara

Di Matteo Bonanni

La trama in breve:

Un serial killer si aggira per i vicoli di New York, nottetempo, eliminando prostitute e ballerine dei locali a luci rosse. La polizia brancola nel buio, la mafia comincia a innervosirsi.

Prima dello scontro finale, previsto dalle regole e dal climax del genere, il protagonista va in chiesa per “confessarsi”, o meglio per chiedere un’assoluzione per qualcosa che sta per commettere. È un uomo che ha cercato, senza riuscirci, di uscire dalla spirale di violenza in cui si era messo.

Questo passaggio, come altri del film, ci segnala la differenza rispetto a quello che in apparenza potrebbe sembrare un thriller senza spessore, con venature noir, stile anni ’80 e basato solo da notti cittadine e luci scintillanti, anticipando in tal modo l’epocale scena de “Il cattivo tenente”.

La New York di Ferrara al suo terzo film, è una nuova Sodoma e fin dall’inizio il regista lo mostra. Dopo due film quasi sperimentali e totalmente underground, il regista newyorkese approda ad un’idea più commerciale.

Le linee del film si intrecciano e ci mostrano vari aspetti: la volontà di redenzione del protagonista (che ha ucciso un uomo in incontro di boxe), la ricerca del killer, la storia d’amore tra il protagonista e una delle ballerine del locale e infine il rapporto tra la mafia e una prima figura di poliziotto molto ambigua.

Ci sono tutti i temi del primo cinema di Ferrara e anche i rimandi al cinema che lo ha segnato. Innanzitutto il killer che vuole ripulire la città e che racconta passo dopo passo il tutto in forma di diario (Bresson e poi Scharader insegnano); poi un ragazzo che cresce avendo rapporti con la mafia (è italoamericano), elemento che tornerà in vari film del regista; inoltre  un poliziotto violento e spregevole, che, pur non avendo certo le sfumature del poliziotto de “Il cattivo tenente”, presenta però le caratteristiche diremmo embrionali, anche per il suo sentirsi “la legge”; per giunta il rapporto con la droga; e infine la toponomastica di una città, che Ferrara scandaglierà a fondo nei suoi momenti e angoli più bui e torbidi.

Il noir dialoga con il thriller soprattutto nella descrizione di un territorio urbano oscuro. Non vediamo praticamente mai il giorno, nel raccontare la violenza della New York anni ’80 e nello scavare in questo personaggio dilaniato dal senso di colpa. Anche il racconto dei locali notturni è un tema del noir. Ferrara ci tornerà vent’anni dopo con “Go go tales”, film del 2007 che è un evidente omaggio o rimando al capolavoro di Cassavetes “L’assassinio di un allibratore cinese”: anche qui, molto alla lontana, se ne intravede un rimando.

Al livello produttivo, si diceva, il film è un passo in avanti dopo due film a bassissimo budget e un esordio nel porno. I corpi femminili, nudi e oggetto del desiderio, sono un tema del cinema di Ferrara; qui la Griffith ne incarna un esempio eclatante. Il film, sebbene non ebbe successo nonostante le premesse e il buon cast, fu un modo per il regista di dirigere un film più grande. Per la gloria soprattutto al livello di critica e in parte di pubblico bisognerà aspettare l’apoteosi della sua poetica degli anni’ 90.

Il cast non in gran forma e alcuni passaggi della sceneggiatura non sono all’altezza dell’idea di base, e se non fosse per la regia e le ossessioni di Ferrara, il film scadrebbe nella routine. E’ invece interessante perché prosegue in parte il cammino intrapreso con i due film semi-sperimentali della trilogia e che anticipa alcuni aspetti del cinema a seguire dell’autore. Da notare le scene di aggressione del killer per la loro forza e la forza visiva di una New York inquietante.

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