Un’Anima divisa in due (1993) di Silvio Soldini

In quel 1993 alla Mostra del Cinema di Venezia, il Leone d’Oro andava a due film eccezionali: America Oggi di Robert Altman e Tre colori: Film blu di Krzysztof Kieślowski; mentre per l’interpretazione femminile veniva premiata una giovane Jiuliette Binoche sempre per il film di Kieślowski. Soldini dirigeva il suo secondo film e Bentivoglio, che vinse il premio maschile, era molto giovane e noto soprattutto per i film con Salvatores.

La trama in breve

Addetto alla sorveglianza, Pietro Di Leo deve allontanare dal grande magazzino in cui lavora una giovane rom. Qualche giorno dopo, quando tornerà a rubare un profumo, Pabe, questo il suo nome, sarà inseguita per le strade da Pietro e poi lasciata scappare. Di incontro in scontro, tra i due si viene ad instaurare un rapporto sempre più intenso che sfocerà in un’inaspettata fuga verso il mare dove tenteranno di condurre una vita insieme.

Arriveremo dopo a parlare dell’interpretazione magistrale di Bentivoglio e del premio veneziano; prima soffermiamoci su questa seconda opera di un regista fin troppo poco ricordato, capace di raccontare l’Italia degli anni Novanta e Duemila con storie di uomini e donne alle prese con le loro sconfitte alla ricerca di uno slancio, che spesso si imbattono in incontri casuali e catartici.

Ecco allora che il tema dell’incontro-scontro è alla base di questo film, attualissimo e importante ancora oggi per come tratta il problema della diversità, della difficoltà d’integrarsi. Nel 1993 i Rom erano entrati già ampiamente nell’immaginario dell’italiano medio ed erano, lo sono ancora, assimilati solo ad un prototipo di ladro, sporco e cattivo. Soldini e Tiraboschi affrontano il tema con maturità riuscendo a mostrare le grandi, quasi insormontabili, differenze che attraverso i percorsi dei due protagonisti; ma dicevamo di questo incontro…

Il protagonista, depresso, stressato e deluso, s’imbatte in questa giovane rom dagli occhi tristi e in lei intravede una possibilità altra, una via d’uscita da una vita grigia, come era grigia la Milano dell’epoca; si lancia così in un’avventura unica, bella e sofferta. Soldini predilige i dettagli: le mani, il naso che sanguina, gli sguardi, soprattutto nella prima parte ci svela poco a poco i suoi protagonisti.

L’Italia del film è piena di pregiudizi, a volta sensati e a volte no, ma è anche un’Italia piena di amore e comprensione, si pensi alla fuga ad Ancona dal padre dell’ex moglie, Soldini non fa un ritratto nero della nostra piccola borghesia, capitanata dal protagonista, buono e un po’ credulone, ma strepitosamente umano; non si vede ancora la forza spietata del branco, la cattiveria dei topi o leoni da tastiera dei giorni nostri, non si vede l’odio verso il diverso.

L’anima dei protagonisti è divisa in due, entrambi fuggono dalla loro realtà e dalle loro abitudini, entrambi esplorano l’altro e l’ignoto, del resto anche il film è diviso in due parti essenziali: la prima ci racconta del microcosmo milanese con il suo grigiore, mentre la seconda ad Ancona è più vitale, emozionante, nel mezzo c’è il viaggio e la fuga.

Soldini ha mostrato l’Italia in lungo e in largo, sempre attraverso personaggi amareggiati ma mai domi,in questo caso viene aiutato da un Bentivoglio nella prova della vita, lontano dalle smorfie, dai ruoli gigioneggianti del futuro, ma sempre pacato, dentro al ruolo, capace di dare delle sfumature al personaggio che lo rendono, un personaggio importante del cinema anni Novanta. Un uomo divorziato, senza molti slanci vitali, se non grazie al bellissimo rapporto che ha con il figlio, vissuto grazie alla fantasia di entrambi, vista la pochezza economica e allora la spinta vitale di questo incontro con la ragazza lo trasforma nuovamente in uomo che è capace di plasmare la propria esistenza, di affrontarla per arrivare al suo obbiettivo. Un uomo che ha riacceso la sua curiosità per la vita e vuole conoscere una cultura diversa, quasi opposta alla sua. Bentivoglio aveva fatto e farà anche successivamente personaggi spinti da motivazioni simili, ma mai con questa forza visiva, con questo impatto sulla pellicola; il premio di Venezia allora è meritato ed è un premio anche per il film.

Il coraggio di Soldini & co. è stato quello di affrontare un tema così scottante e faticoso, ancora attuale, senza schierarsi in modo demagogico e fastidiosamente politicizzato, lasciando che le differenze e le diverse culture trasportassero il film verso la ricerca di questo amore impossibile; Soldini e soprattutto Bigazzi sono magistrali nel dipingere i costumi degli anni Novanta e la fotografia, come la regia, sono magistrali nel seguire passo-passo le vicende del protagonista in una storia che mischia situazioni e momenti diversi.

Oltre al Bentivoglio c’è un cast stellare, con la bravissima Maria Bakò nei panni di Pabe, e tra le altre apparizioni va citata quella di un cattivissimo e allora molto magro Battiston, che diventerà l’attore feticcio del regista.

Un film importante, in concorso in un’interessante rassegna veneziana a cui partecipavano anche Godard con Ahimè! e De Niro con Bronx, che riesce ad essere coraggioso, impegnato, ma anche stilisticamente avvincente, si pensi alla scena iniziale nel metrò e alla fotografia di una Milano spenta; aiutato da un Bentivoglio magnetico, con quel suo sguardo inizialmente triste e sconfitto ma che conserva una forza e uno spirito combattivo che riuscirà a resuscitare grazie ad un amore impossibile.

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