Session 9 (2001) di Brad Anderson

Di Jacopo Wassermann

Come molti dei registi menzionati lungo il ciclo Visioni al Limite, anche Brad Anderson irrompe nel genere horror in modo inaspettato e folgorante. Al contrario dei suoi illustri colleghi, è poi caduto nell’anonimato della prestige TV e dello streaming, un ripiego sicuramente redditizio ma scarsamente riconosciuto. Eppure fra il lancio di Session 9 e The Machinist godette di un’eccellente reputazione, aiutata in quest’ultimo caso dalla massiccia campagna promozionale per la prova d’attore di uno scheletrico Christian Bale. A partire da quel momento, nonostante l’invito a partecipare alla serie antologica Masters of Horror, i lungometraggi di Anderson passarono sempre più inosservati dalla critica – uno dei tanti casi in cui la stampa specializzata abbandona le “scoperte talentuose” di cui ama discorrere in un primo momento. Il che è un peccato, perché opere come Transsiberian e Vanishing on 7th Street, indubbiamente minori, sono comunque più stimolanti ed efficaci della maggior parte di quello che viene venduto come “rivelazione imperdibile del genere” sul mercato odierno.

Polemiche a parte, Session 9 è il lavoro migliore del regista e uno dei punti alti nel cinema horror del ventunesimo secolo. Il film lavora a partire da luoghi comuni che abitano il genere dai suoi albori nel romanzo gotico del tardo settecento: un edificio abbandonato, in questo caso un ospedale psichiatrico; la “presenza” che manifesta una colpa del passato; la “possessione” che stabilisce un collegamento fra quel passato e il presente; digressioni paratestuali che spostano la focalizzazione drammatica – servendosi di audiocassette piuttosto che di polverosi manoscritti. Il titolo si riferisce infatti alla registrazione di una seduta, la nona, con una paziente affetta da personalità multipla, il cui percorso psichiatrico assume un’importanza ossessiva per il protagonista impresario interpretato da Peter Mullan.

Anderson si sforza di aggiornare gli stilemi del genere, riuscendoci dignitosamente, ma conviene sottolineare che il punto di forza del regista non dipenda tanto dal cosa, bensì dal come lo narra. A conti fatti, la storia di Session 9 sapeva di vecchia scuola già ai tempi del suo esordio. Ciò che distingue il film è un uso superlativo della fotografia digitale, del missaggio e del montaggio, che lavorano in unisono per creare un’esperienza sensoriale ipnotica e inquietante.

Si è già scritto molto e meritatamente sull’immagine e sull’ambiente sonoro di Session 9. Fu uno dei primi lungometraggi anglofoni di vocazione chiaramente commerciale a essere girato in formato digitale (in anticipo di un anno rispetto a 28 Days Later…). Minor attenzione ha ricevuto il contributo essenziale del montaggio (ad opera del regista), che riesce a veicolare lo spaesamento del protagonista servendosi di ellissi attentamente calcolate. È piuttosto comune che in horror e thriller psicologici si abusi di nodi di trama e soluzioni plastiche per manifestare i temi soggiacenti. Anderson, al contrario, ha sempre brillato lavorando in sordina, tant’è che in Vanishing on 7th Street la minaccia è letteralmente un’assenza, o meglio, una scomparsa.

In Session 9, la scansione narrativa operata dal montaggio (piuttosto che dalla sceneggiatura) e la sua durata sono elementi inscindibili dall’effetto emotivo della messinscena, a punto tale che, a tratti, lo spettatore reagisce con maggiore intensità al contrasto o alla sovrapposizione degli elementi costitutivi, piuttosto che alla loro rispettiva sostanza.

Per questo è difficile, forse impossibile, descrivere adeguatamente la proposta estetica del film. Si trova nella granularità della luce rarefatta, nell’eco di una stanza spoglia, nella registrazione distorta di una voce che non rivela nulla, e per questo tanto più intimorisce.

Precedente La Mano (The Hand) (1981) di Oliver Stone Successivo Intervista a Tommaso Santambrogio