Due guitti di provincia, volutamente nascosti in un bagno durante una prima affollata e contrastata in un teatro romano, finalmente escono dal nascondiglio ma trovano il teatro oramai buio e vuoto. Si siedono sul palcoscenico e raggiungono finalmente una conquistata serenità, visto che “quello che si poteva fare è stato fatto”.
In onore de La stranezza, nono film di Roberto Andò, e in ossequio a Luigi Pirandello, il vero ideale e concreto protagonista, vorrei cominciare con la distruzione di una per me odiosa convenzione. Parlo di quello che è barbaramente diventato un vero e proprio tabù per chi scrive di cinema, che non può essere mai infranto, peste colga chi si azzarda: il cosiddetto spoiler. Come se in un viaggio, dire dove si è andati e cosa si è fatto, esautori l’esperienza di tutto il sostrato di emozioni, elementi acquisiti e modalità ingaggiate. Come se una fruizione culturale si sostanzi tout court della mera trama da romanzo d’appendice, e non invece di intuizioni registiche, musicali, scenografiche, se non addirittura sinestetiche.
Questa convenzione simbolicamente la faccio esplodere e frantumare avvicinandomi alla vicenda narrata da La stranezza.
Il viaggio di Luigi Pirandello, alias un trasparente Toni Servillo, al centro del film segue un doppio binario. Il primo è quello della concreta visita all’illustre amico Giovanni Verga, due anni prima che il grande scrittore muoia, per consegnargli il discorso elogiativo e augurale. Al quale fa da prefazione il ritorno nella cara Girgenti, nella quale “casualmente” si imbatte nella morte della storica e cara balia Maria Stella (Aurora Quattrocchi).
Il secondo binario si compone invece di immateriali e insistenti fantasmi dell’anima, che invadono la mente di Pirandello dall’inizio alla fine del plot. Non sono solo i famosi “personaggi” che non riescono a trovare una giusta collocazione nell’universo creativo del drammaturgo.
Difatti, il fumo indecifrabile della fantasia invade il passato e il presente, coinvolgendo la figura decisiva della moglie, verso e a causa della sua follia, sacrifica l’intera esistenza, tra assilli e rimpianti auto-accusatori. Lo stesso fumo a mio avviso ammanta Maria Stella e soprattutto le altrettanto decisive presenze di Sebastiano Vella e Onofrio Principato, alias Ficarra e Picone. Essi sono i becchini che dovrebbero organizzare il funerale della balia, ma lo fanno a tempo “perso”, visto che l’occupazione principale è quello di mettere su spettacoli dove partecipano, sul palco e come spettatori, gli abitanti del paesino di provincia siciliana post prima guerra mondiale.
Del resto la morte e il teatro sono le uniche e principali occupazioni della Girgenti del 1920 (ma forse sono quelle dell’intera umanità?) che scorge quindi in questi due impresari funebri e teatrali il veicolo principale per tessere trame sociali e umane.
La morte e la rappresentazione hanno il colore grigio dell’alterità rispetto al mondo “normale” e quotidiano, ma, nella prima storica dei “Sei personaggi in cerca di autore” del 10 maggio 1921 al teatro Valle di Roma, assumono i colori sgargianti e inusuali della verità rispetto alla finzione scenica.
Roberto Andò riesce mirabilmente a rendere più complessa la rottura della quarta parete e la compresenza dei due mondi sul palcoscenico, caratteristica principale di Pirandello. Inserisce al’interno di questo ingranaggio le due figure interpretate da Ficarra e Picone, concludendo il cerchio.
La loro “vita” a Girgenti, resa plasticamente nella prima paesana fatta di scontri tra platea e spalti, diventa in fondo la metafora del passato provinciale dei due attori reali, alle loro prime armi, in un dialetto vitale e suggestivo.
Il supposto e non dimostrato invito di Sebastiano e Onofrio alla tanto contestata prima romana è cinematograficamente perfetto. I fantasmi che percorrono il plot del film, precisi storicamente e suggestivi come inquadrature (la carrellata sui tipi che popolano l’ufficio comunale vale da solo il biglietto), invadono come in una stazione finale l’entrata della cinepresa nella prima romana. Lo spettacolo è dovunque si giri lo sguardo.
Sembra quasi usuale che il padre, la madre, il figlio, il giovinetto, la figliastra e la bambina (i sei personaggi) parlino con il direttore di scena (Luigi Lo Cascio). Infondo non era già accaduto nel teatrino di Girgenti, raffazzonato ma piena di eventi inaspettati? Forse i due capocomici (o capo drammatici) erano anch’essi doppi, attori e personaggi, a cui non bisogna chiedere di che materia sono composti.
Dunque è stato fatto quello che si poteva fare.
Dunque quello di Andò è un film in cui non si parla dell’imminente regime fascista, o della nascita del partito Comunista o di quello Popolare? Dunque la lamentala del maestro Giovanni Verga non ha risvolti o intendimenti politici? Fatto strano e quasi unico nel panorama del cinema italiano contemporaneo … A meno che qualche critico militante, dei dotti medici e sapienti non vogliano alludere, per far volare La stranezza sugli altari del solito premio tra i soliti, rendere il film non più “colpevolmente” leggero ma pesante.
Io ho fatto quello che si poteva fare. Vedetelo il film di Andò, lo merita.