Ossigenate il vostro pensiero. Intervista a Stefano Miraglia.

Per la “categoria: interviste”, oggi è il turno di Stefano Miraglia. Parlare con lui significa ri-conoscere una profonda e sincera amicizia, vivacizzata da infinite discussioni sul cinema polacco e da un amore viscerale per i libri. È grande la gioia di presentare un giovane artista di talento e trasmettere l’interesse suscitato dai suoi film sperimentali, ovvero Anoche, Ramusiana (vedi foto) e Rodez.

Con la sua intervista continuiamo ad interloquire con i vari “mestieri” del cinema, per capire meglio dove stiamo andando e come i giovani possano inserirsi ed aiutarci a migliorare l’arte cinematografica.

Buona lettura!

  1. Chi sei? Vuoi presentarti?

Mi chiamo Stefano Miraglia e sono artista e curatore. La mia specializzazione, in entrambi i ruoli, è il cinema d’artista.

  1. Quando e come hai iniziato a fare il lavoro di artista e quello di curatore?

Ho cominciato a creare video a Roma, nel 2011. All’epoca lavoravo a dei corti di animazione con un mio compagno di studi, Leandro Varela. Per quanto riguarda il lavoro di curatore, ho cominciato nel 2016, fondando un progetto online che si chiama MOVIMCAT – The Moving Image Catalog. https://www.facebook.com/movimcat/

  1. Quali difficoltà hai trovato?

Non so se si possa veramente parlare di difficoltà. Per quanto riguarda le mie creazioni, vengo dal do-it-yourself. Ho sempre cercato di fare solo quello che volevo. Il mio percorso di curatore, invece, è cominciato con una formazione di sei mesi in Francia, in una situazione abbastanza privilegiata, accompagnato da un’istituzione, con l’accesso a professionisti e a una collezione pubblica di arte contemporanea. Difficile, forse, è stato il post-formazione: come e cosa curare quando non hai più un’istituzione dietro? La creazione di MOVIMCAT è stata la mia risposta a questo quesito, perché gran parte del lavoro che faccio è curare qualcosa che c’è già, e sta sotto gli occhi di molte persone, ovvero i film d’artista presenti su Vimeo.

  1. Cosa hai studiato e chi devi ringraziare per essere arrivato a questo punto?

Ho studiato storia del cinema a Roma e a Lione, con qualche formazione nel campo dell’arte, come quella di curatore di cui ti parlavo prima. Se sono arrivato a questo punto è grazie alle persone che mi stanno accanto e agli artisti con i quali collaboro.

  1. Cosa significa per te lavorare, in particolare, come cineasta sperimentale?

Essenzialmente: proporre, accostare, lavorare delle immagini seguendo degli standard e dei metodi espressivi alternativi.

  1. Vuoi parlarci dei tuoi film?

Buona parte dei miei ultimi lavori non ha colonna sonora. Quando c’è, è molto forte, in termini di volume, molto rumorosa. Non filmo quasi mai per un progetto specifico. Filmo per arricchire il mio archivio. Per me, fino ad ora, fare un film vuol dire tirare fuori dei file dal mio archivio e cercare di accostarli o fondere. Cerco di unire video, foto, suoni ed elementi biografici, molti di questi non hanno delle corrispondenze evidenti, ma le cerco, o le creo.

  1. È difficile unire video, fotografia, documento ed elemento autobiografico?

A livello tecnico, è molto facile. Quello che è difficile è trovare un modus operandi, un rigore. Ed è stato difficile capire che questa commistione di elementi era diventata parte fondamentale della mia pratica.

  1. Quali sono i tuoi progetti futuri?

Quest’anno vorrei finire due film. Sarò in residenza per la seconda volta a Le Dôme Festival, in Francia, dove presenterò il lavoro di Gautam Valluri, artista indiano che fa film in 16 millimetri. A novembre sarò a Bologna per il secondo Weekend di Nomadica, quattro giorni di proiezioni, con un’ampia selezione di film d’artista, la maggior parte mai mostrati in Italia. Sto anche lavorando a un padiglione online per la prossima edizione di The Wrong Biennale, che aprirà a novembre.

  1. Come vedi il mondo del cinema sperimentale italiano tra dieci anni?

Ti posso dire come lo vorrei. Vorrei associazioni più forti e radicate a livello locale e nazionale, e meglio attrezzate. Poi, vorrei più mobilità degli artisti, una mobilità che non è da intendere solo a livello spaziale ma anche settoriale, ovvero mobilità tra il sistema dell’arte contemporanea, quello dei festival di cinema e quello del do-it-yourself e delle associazioni. Mi piacerebbe vedere più festival che decidono di inserire tra le loro priorità la retribuzione degli artisti. E anche avere più workshop, più incontri, più artisti e curatori internazionali invitati, e più persone che hanno la voglia e la possibilità di scrivere sul cinema d’artista.

  1. Cosa pensi delle varie piattaforme, tipo Netflix, Amazon Prime, ecc…?

Non ne penso nulla, ad esser sincero. Mi servo solo di una di queste piattaforme, Mubi, perché è quella che si avvicina di più ai miei gusti.

  1. Una domanda diretta: cinque film tout court che ami e cinque che “detesti”.

Palms di Mary Helena Clark, Karagoez catalogo 9,5 di Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Gibraltar di Margaret Salmon, The Deccan Trap di Lucy Raven, Rapa das bestas di Jaione Camborda Coll. Sui film che detesto, preferisco non esprimermi, anche perché spesso non sono i film che sono detestabili, ma le pratiche o le narrazioni tossiche.

  1. Che consigli daresti ai ragazzi per lavorare nel cinema sperimentale?

Difficile dare consigli che valgano per tutti. Posso darne due. Il primo è di fare attenzione alle etichette: esistono e sono pratiche, quasi tutte sono legate a un momento e a un luogo specifico. Cinema sperimentale è molto pratico, ma è fuorviante, lo rende un genere. Di sperimentale ci può essere solo il metodo di lavoro. Il secondo: associatevi, formate collettivi, create le vostre realtà, ossigenate il vostro pensiero parlando dei vostri progetti, esponendovi, lasciatevi criticare.

Di Marco Chieffa

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