L’ispettore Martin ha teso la trappola (The Laughing Policeman) (1973) di Stuart Rosenberg

Di Matteo Bonanni

L’ispettore Martin ha teso la trappola (The Laughing Policeman) è un film figlio della sua era e con gli occhi dell’epoca va interpretato. Siamo nel 1973, il cinema crime, (neo-)noir e poliziesco, è rinato dalla fine dell’uso del codice Hays. “Detective’s story”, come dicevamo nell’introduzione, è stato il nuovo apripista e “Senza un attimo di tregua” ha mostrato la via per il nuovo noir.

Ma torniamo al film di Rosenberg, buon regista, soprattutto in ambito carcerario, che tornerà al crime, questa volta in un noir a tutti i livelli, due anni dopo con “Detective Harper: acqua alla gola”. Il film è tratto da un libro svedese, con un’ambientazione però spostata a San Francisco, che rimane la Terza di città del noir, dopo LA e New York; saranno indimenticabili le scene per le vie della città di “Bullitt”, e di “Basic instinct” qualche anno dopo.

Le città come sappiamo sono un perno del noir, e in questo senso il film ci mostra una città attraverso le ossessioni, in parte, del momento e quindi la violenza estrema, i killer psicopatici, il terrorismo, le gang…c’è un passaggio nel film in cui i personaggi parlano di Chinatown, di come in quel quartiere non sia possibile giungere alla verità, l’enigma cinese per gli americani, la cosa vi suona (?).

Una città di drogati, prostitute, papponi, assassini, in un clima di agitazione febbrile; ecco dove si innesca il noir, nel raccontare in piccola parte la società anche in un frangente “commerciale”. Tra i tanti personaggi del noir c’è e ci sarà anche il poliziotto, in questo caso un poliziotto stanco, interpretato da un buon Walter Matthau. L’attore, ad inizio degli anni ’ 70, ha deciso di allontanarsi dalla commedia, o comunque di esprimere anche altre corde, e qui lo fa, come farà anche nel coevo “Chi ucciderà Charley Varrick?”, capolavoro del noir firmato dall’immancabile Don Siegal, e in “Il colpo della metropolitana”, thriller adrenalinico.

Un poliziotto stanco dicevamo, alle prese con una strage, e fin da subito capiamo che la strage è connessa ad un vecchio caso ancora irrisolto.

I personaggi sono approfonditi ma non del tutto, capiamo solo la superficie, non si va in profondità e la ricerca del killer è un pretesto per parlare di altro. Il film ci mostra la città nei suoi cambiamenti, certo il tutto è filtrato dallo sguardo dell’epoca; i locali gay sembrano una moderna babilonia (torneranno in modo diverso in tanti noir, per esempio nel magnifico  “Cruising” di Friedkin), le battute ormai inaccettabili sull’omosessualità si accumulano e il doppiaggio italiano acuisce i toni.

Il film si sviluppa sui due principali binari, il primo è il confronto, classico, tra i due nuovi colleghi, il più anziano (Matthau) e il più giovane (Dern), e il secondo è la ricerca del colpevole che si lega al caso irrisolto, di cui si parlava, ovvero l’omicidio a sfondo sessuale di una donna.

Torniamo indietro, alla prima scena che si conclude con la strage nell’autobus. Ecco, quello è il pezzo di cinema che vale tutto il film, una scena ben diretta, claustrofobica, insinuante. Il confronto tra i due colleghi, e un confronto anche attoriale tra due generazioni e modi di recitare diversi, è un confronto interessante anche per questa ritrosia dei personaggi al volersi raccontare. Fondamentale è invece la riapertura del caso irrisolto: proprio in questa ricerca capiamo molti aspetti del protagonista e della vicenda oltre che dell’epoca.

Il partner/collega è morto alla ricerca ossessiva del killer di una giovane donna, in questa angosciante ricerca (ricordiamo che l’ossessività è uno dei punti cardine del cinema crime anni’ 70 e non solo crime, a partire dal poliziotto protagonista di “Il braccio violento della legge“) il lavoro è entrato nella sfera privata, il giovane poliziotto ripeteva alcune pratiche, non lo vedremo mai né sapremo nulla al riguardo, perché il cinema non è un Cinema pronto a mostrare questi aspetti della società americana; ci vorrà “Hardcore” di Schrader  cinque anni più tardi, con la fidanzata. Questa ricerca ossessiva lo ha portato a morire per mano di un mitra.

Il protagonista ha contagiato il suo giovane partner ed ora è tormentato dal primo caso, che sfocia nel secondo, e dalla morte del collega. Scopriamo anche che il nostro anti-eroe non ha più una vita sessuale, la moglie dorme in un’altra camera, e la scoperta di questa sessualità violenta l’ha fagocitato: un tema questo che tornerà e tornerà ancora in tutto il cinema crime. La sessualità portata verso l’eccesso l’ha traumatizzato e l’unica possibilità che ha è quella di risolvere il caso e nel farlo dovrà rischierà la sua vita.

Il (neo-)noir si annida nei meandri degli altri generi che da lui stesso si dipartono, per trovare una compiutezza artistica (?) anche in un cinema più commerciale. Per questo il film ci aiuta a capire il risvolto del neo-noir post “The French connection”, un poliziesco cittadino che ha echi anche nel Western, che cerca di raccontare le città, e le ossessioni del periodo. Da notare inoltre la presenza di un protagonista taciturno e ossessionato, anche se Matthau non è Hackman, che deve fare i confronti con la morte e con la sua (a-)sessualità, in un percorso doloroso che non era ancora pronto ad affrontare.

Rosenberg è un buon regista e, dopo l’eccellente scena iniziale, si dedica a dare risalto alla sceneggiatura; gli attori sono bravi ma non riescono a dare qualcosa in più ai personaggi; la fotografia ha momenti riusciti nel riprendere la città. Dunque, il noir sfocia nel poliziesco e lo contamina nel racconto, acuendo i lati più nefasti dei personaggi e raccontando la città che in un tale film così si prende il ruolo fondamentale.

Precedente Victoria (2015) di Sebastian Schipper Successivo La città spenta (Crime wave) (1953) di André De Toth