L’elemento del crimine (Forbrydelsen element) (1984) di Lars von Trier

Di Matteo Bonanni

Primo lungometraggio di Lars von Trier e primo capitolo della sua “trilogia europea”, è stato presentato in concorso al 37º Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix tecnico.

La trama in breve:

Il detective Fisher, reduce da un viaggio in un Europa crepuscolare, dominata da disordine, caos e morte, si confessa ad uno psicoanalista del Cairo. Fisher, tornato in Egitto traumatizzato dall’Europa dove ha condotto un’indagine su una serie di omicidi, si confida con il suo psicoterapeuta e gli racconta del suo incontro con Osborne, il suo vecchio professore, autore del libro “L’elemento del crimine”, dove si teorizzava che un poliziotto debba identificarsi con il criminale per svelare il mistero della sua condotta.

L’esordio di Von Trier è uno di quegli esordi, anche visto oggi, che lascia spiazzato lo spettatore; il regista, che aveva fatto alcuni mediometraggi in precedenza, diventa noto al pubblico del festival grazie al primo tassello della “trilogia europea”.

Potremmo definirlo neo-post-noir, sicuramente Von Trier guarda al noir. C’è il poliziotto in crisi, la voce narrante, il rapporto con la città, la discesa negli inferi della città e della mente, il killer, la prostituta, insomma tanti temi del generi che il regista  li rielabora con uno stile che poi (ri-)conosceremo nel proseguito della carriera.

La storia inizia sotto ipnosi, per quanto sappiamo potrebbe essere anche tutto un sogno. Del resto il cinema è sogno. L’Europa post atomica (?) che vediamo è irriconoscibile, l’acqua è l’elemento cardine come lo sono il caos e la violenza; tutto è fetido, sporco, distrutto, schifoso, e la ricerca di questo assassino si annida sempre di più dentro questa città inconoscibile.

La città è un punto fermo del noir ma Von Trier qui trasporta il noir nella fantascienza, guarda a Tarkovskij (Blade Runner di Scott è un’antecedente ma difficilmente sarà stato un riferimento per il film), riflette sul noir americano classico, ma gioca col grottesco, con l’incomprensibilità. Come nel noir classico il protagonista ha a che fare con la mente e la menomazione, ma qui a differenza dei detective anni ’40 sceglie lui di avere un “mal di testa non suo” come gli ripete lo psicanalista, e lo fa per vivere le sensazioni dell’assassino.

Realtà, finzione, racconto della finzione della realtà, i piani si intersecano. I racconti nel racconto, e con loro i narratori, si moltiplicano, le immagini si sovrappongono. Il mondo della mente, una discesa paurosa, si unisce allo sguardo verso questa città caduta in disgrazia.

Nonostante il disinteresse per l’elemento di suspense, Von Trier porta avanti anche la trama di genere fino alla fine e anzi anticipa un filone di film teso a raccontare i meccanismi mentali dei serial killer; quello che è importante è la crisi dell’individuo, dell’Europa se vogliamo, in un mondo senza più certezze, dove la realtà è inconoscibile, dove le figure paterne (Osborne) sbiadiscono e con esse anche molto senso del quotidiano.

Nel tentativo di seguire il cammino del mentore, in un rapporto con un libro (L’elemento del crimine) che non sappiamo se sia mai stato scritto, Fisher svela nel finale una verità che gli fa male. Nella vecchia Europa, ormai ridotta a cenere, neanche l’ultimo dei suoi amici è sopravvissuto e anzi è caduto nella trappola della sua mente; questo giocare ad immedesimarsi con il killer sarà un punto chiave di molti thriller a seguire.

È interessante pensare a Von Trier trentenne, che nel solco di molti maestri europei, sceglie il noir per iniziare il suo discorso sull’uomo e sul cinema. Iniziando il film sotto ipnosi, è facile pensare a rimandi meta cinematografici; del resto la scomposizione delle immagini del film ci riporta a quel complicato mondo che è l’arte cinematografica e il suo narrare il sogno e la realtà. E’ questo un altro aspetto che si potrebbe analizzare, e tanto si è detto nel corso degli anni, ovvero il rapporto simbiotico tra cinema e psicologia.

Sotto il piano visivo e tecnico Von Trier e soci scelgono un colore che va dal bianconero al giallino opaco (la cosa più vicina sono le suggestioni di “Stalker”), e la regia è funambolica nel cambiare registri e nel seguire il delirio della storia; le immagini e le derive della mente si mischiano alle soggettive del protagonista, i racconti nel racconto si materializzano in immagini che fanno parte dell’immagine principale, la scomposizione è totale.

Il regista danese tornerà poi a parlare di killer, trentaquattro anni dopo in America con un altro film destabilizzante come “The house that Jack built”.

Von Trier si dimostra fin dal primo film un’esteta e un regista capace di racchiudere in sé poetiche, generi, visioni, rileggendo il tutto con un’idea postmoderna; in “L’elemento del crimine” troviamo l’umorismo, macabro di un certo noir, i dialoghi paradossali del teatro dell’assurdo, la forza visiva del cinema d’autore.

Il finale che sembra riportare il film ad una logica “narrativa”, ha poi il colpo di coda degno del cinema successivo del maestro danese; dal sogno non si può uscire (?).

“L’elemento del crimine” ci ricorda come il noir abbia oltrepassato la geografia più di molti altri generi cinematografici (si pensi che anche la Nouvelle Vague, di varie nazioni, guarderà al noir con grande interesse), e sia riuscito, pur in un contesto distopico, fantascientifico e paradossale, a resistere e ad imprimere le sue regole sintattiche e i suoi marchi di fabbrica.

Il protagonista peraltro potrebbe essere uscito anche da un film anni’ 40, la sua ossessione per la ricerca del killer, che lo spinge ad immedesimarsi, è quella di molto noir-poliziesco e thriller soprattutto americano ma non solo; è un uomo che non ha più ideali, in un mondo dominato e regolato dalla violenza, che può solo procedere attraverso le sue ossessioni e la deriva di un’indagine psicotica.

In conclusione “l’Elemento del crimine” si contraddistingue per essere già un film “maturo” di un regista che poi segnerà il suo tempo con opere controverse, illuminanti e contorte allo stesso tempo, che parte del noir per fare un grande ibrido e superare poi qualsiasi concetto di genere e piano narrativo, per indagare sulla natura dell’uomo e sulla sua crisi di identità attraverso la trama e soprattutto le immagini.

Notazione finale, nel film c’è una scena che omaggia esplicitamente la scena dell’arrivo della cavalleria di “Apocalypse now”.

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