La moglie di Tchaikovsky (Žena Čajkovskogo) (2022) di Kirill Serebrennikov

Di Matteo Bonanni

Il film è stato presentato in concorso al 75º Festival di Cannes dove il regista ormai è un ospite fisso.

La trama in breve:

Antonina Miljukova (Alëna Michajlova) sposa Pëtr Tchaikovsky (Odin Bajron). Brillante e vivace, si piega al suo amore per il compositore, che si trasforma in ossessione quando questi rivela di averla sposata per occultare la propria omosessualità. Consapevole di non essere desiderata dal marito, la donna accetta qualsiasi umiliazione da parte del consorte, pur di restargli vicino.

La moglie di Tchaikovsky parla di un’ossessione che ti divora dentro. Antonina, la protagonista, è divorata dal desiderio di stare con suo marito; ha fatto molto per diventare sua moglie e, nonostante tutto, non derogherà mai dal fatto di essere sua moglie, anche venendo meno ai suoi propositi di proteggerlo.

Serebrennikov, ormai esule, è un regista visionario capace di raccontare qualsiasi storia con una regia impetuosa. Il confronto con il film di Russell (L’altra faccia dell’amore) del 1970 risulta fuori luogo. Il protagonista di quel film, realizzato da un regista tra i più visionari di sempre, era Tchaikovsky che qui invece è relegato ai margini.

La vicenda ne “La moglie di Tchaikovsky” si posticipa nella Russia violentissima tra il 1877 e il 1893: il primo casuale incontro tra i due dovrebbe risalire al 1865, le famose lettere d’amore di lei al 1877. In poche scene familiari capiamo dove la protagonista abbia trovato una voglia disperata di uscire di casa, di distaccarsi, ed il rapporto con la madre lo sancisce; ma al regista non interessa il realismo psicologico del personaggio, visto che ci inebria con immagini fascinose, oscure, viscerali, portandoci dentro questo incubo virato su colori neri.

Le scene in cui la protagonista viene attorniata da uomini nudi, il desiderio della donna sempre represso che esplode (fuori campo), la masturbazione del nuovo “compagno” – avvocato che la segue nella fase processuale …  Il regista non si e non ci risparmia, ci porta dentro un meccanismo “perverso” in cui l’odio e le umiliazioni diventano virali. La protagonista viene umiliata, derisa per tutta la storia e a sua volta tratta male tutti personaggi che incontra.

Il film ha una forza visiva (come denota anche il finale poetico e surreale) fuori dal comune, esaltando la capacità della macchina da presa di incidere in una Mosca virulenta, sporca, dove i poveri sono ai margini e senza alcuna speranza. Il regista mi ha ricordato la forza visiva di un film forse poco compreso e dimenticato, anche da chi scrive, come “Tramonto” di László Nemes.

La storia inizia con la morte del grande compositore. C’è una scena – che non svelo – che subito ci dà i toni della vicenda e l’idea di narrazione del regista; la “moglie” va al funerale come una sconosciuta, ma si vuole far notare che è “sua moglie”, e ci tiene a rimarcarlo. Da qui capiamo che la sua ossessione è senza ritorno.

Lei stessa si è infilata senza scampo in una trappola: il marito è omosessuale, non l’ha mai apprezzata e probabilmente l’ha sposata per la dote. Per questo non risparmia occasione di metterla in difficoltà, anche se i più meschini in tal senso risultano essere i suoi amici e fratelli. Mentre è la figura della sorella del compositore a riscattare “l’Umanità” descritta nel film e della famiglia; nelle scene in cui la vediamo alle prese con Antonina ci appare come una fata realista, costretta a drogarsi per resistere ai dolori e alla vita, che cerca di persuadere la donna dal suo istinto suicida e mortale.

Il confronto tra le due diventa un momento di sospensione, in un film dove ogni paesaggio e istante assume un carattere onirico; in questo caso è una sospensione benevola, che cerca di distaccarsi da un incubo che procede forsennatamente.

Nei momenti onirici diegetici (la scena del ritratto con i bimbi, avuti dal nuovo compagno, il dialogo dopo lo spettacolo) il regista si concede una visionarietà ancora maggiore.

In conclusione bisogna fare un omaggio alle musiche di Daniil Orlov che avvolgono la pellicola e le donano un lato ancora più oscuro, viscerale e feroce. La prova di Alëna Michajlova è magnetica per capacità di rappresentare un abisso senza ritorno, un sentimento divorante che permea il personaggio dall’inizio alla fine.

Un film da vedere, possibilmente sul grande schermo, che ha la capacità di rileggere la vicenda prendendo la prospettiva della moglie,  facendosi persino cinema politico sulla Russia di oggi.

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