Paradiso amaro (The Descendants) (2011) di Alexander Payne

Di Jacopo Wassermann

In The Descendants, Alexander Payne sembra ripartire dal punto di arrivo del suo esordio The Passion of Martin: con una donna ridotta in stato vegetativo, e un uomo perturbato al suo lato.

Sono cambiate molte cose nel frattempo. Payne ha ottenuto una rispettabilità inedita, sancita dalla candidatura agli Oscar di About Schmidt e ribadita dalla vittoria di Sideways. Anche il tono dei suoi film è diverso: il cinismo e la disillusione degli anni ‘90 lasciano spazio all’empatia, all’identificazione con i personaggi. L’approccio stilistico è diventato più misurato, calcolato, dipendente dalle necessità dei suoi interpreti. Se The Passion of Martin e The Descendants condividono uno scenario vagamente simile, lo stesso non si può dire della nostra relazione con i rispettivi protagonisti, veicolata in entrambi i casi dall’uso della voce narrante. Martin era oggetto di una rappresentazione beffarda, suscitando ilarità e repulsione per l’evidente deformità della sua percezione; Matt King (George Clooney), al contrario, è una figura degna e stoica, le cui mancanze sono perfettamente comprensibili e appropriate alle circostanze. E in entrambi i casi si potrebbe dire, forse, fin troppo.

Per quanto Payne abbia dichiarato ad nauseam l’influenza della Nuova Hollywood sulla sua visione cinematografica, The Descendants tradisce una consapevolezza ben più contemporanea dell’indie darling, forma prettamente statunitense a cui contribuì con i suoi primi lavori. Tuttavia, rispetto a quella fase iniziale di sperimentazione, la forma indie contemporanea avanza rivendicazioni estetiche e politiche ben più modeste, limitandosi spesso a ritratti puramente psicologici con limitate contestualizzazioni socio-culturali. Sulla carta, The Descendants potrebbe mirare più in alto, esplorando le dinamiche di potere, privilegio e nevrosi di una famiglia allargata anglo che eredita un’enorme riserva naturale originalmente appartenuta a una dinastia nobile hawaiiana (basti pensare al trattamento di un tema comparabile nel recente Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, sebbene svolto in termini totalmente diversi). Payne, invece, non problematizza la questione, limitandosi a drammatizzare il punto di vista dei proprietari, i quali non sono nemmeno particolarmente interessati al loro dominio. Non intendo suggerire che l’unico modo corretto di mettere in scena il privilegio di classe sia la critica, ma mi sembra innegabile che la lettura scelta da Payne, per quanto legittima, non valorizzi pienamente la premessa narrativa.

Occasionalmente, il film si rivela all’altezza del suo potenziale. La sequenza del progressivo avvicinamento fra Matt e l’amante di sua moglie (Matthew Lillard) funziona quasi come un cortometraggio a sé stante, e l’ossessività dello sguardo del protagonista rimanda, allo stesso tempo, all’esordio di Payne e a un possibile modello hitchcockiano. È sempre all’interno di questa sequenza che il regista si concede di suggerire la sgradevolezza delle dinamiche interpersonali, in particolare quando Matt strappa un vendicativo bacio “di etichetta” alla moglie dell’amante (Judy Greer). Il problema è che questi momenti, di per sé riusciti, non riescono a volgere in favore dell’equilibrio complessivo del film, perché la forma è ostinatamente determinata a empatizzare con la condotta del protagonista. L’uso della voce fuori campo è in questo senso indicativo: laddove in The Passion of Martin segnalava uno scollamento fra sguardo interiore ed esteriore, rendendosi tanto più necessaria allo spettatore al fine di interpretare le azioni del personaggio, in The Descendants coincide perfettamente con la messa in scena, senza alcun conflitto, scadendo spesso nella pura didascalia e ridondanza.

The Descendants è un passo falso, ma al contempo rivelatore. È nei cosiddetti “lavori minori” che si ritrovano i tratti essenziali di un artista, resi tanto più tangibili dai difetti di forma, spianando la strada per il proseguimento della sua traiettoria creativa. Né sarà un caso che la tappa seguente sottragga Payne all’esotismo di The Descendants per riportarlo, con ben altri risultati, al suo natio midwest.

Precedente Sideways. In viaggio con Jack (2004) di Alexander Payne Successivo Los colonos (2023) di Felipe Gálvez Haberle