Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman) (1979) di Sydney Pollack

 

Di Matteo Bonanni

La trama in breve:

Sonny Steel è stato cinque volte campione mondiale di rodeo e ora è profumatamente pagato per delle carnevalate pubblicitarie di una ditta di cereali. Un giorno deve cavalcare uno splendido stallone che è stato pericolosamente imbottito di tranquillanti. Sonny lo rapisce e si rifugia nelle praterie in cui egli è nato. Un intraprendente telereporter monta il “caso”, lo scova e lo aiuta.

Sonny Steele è un cowboy, un campione del rodeo, è il figlio di tanti altre eroi del neo-post west(-ern). Pollack e Redford non sono Peckinpah e Mcqueen, l’America dal ’72 al ’79 è già cambiata molto, Steele rivendica si una scelta individuale, come spesso i protagonisti di BloodySam, ma lo fa con un principio molto diverso, una rivendicazione in un mondo dove c’è spazio solo per limiti e profitto; non è un personaggio anacronistico e non è un antieroe il suo, ma anzi Steele, gli autori e Pollack ci portano con questo road movie a cavallo, in un’America agrodolce.

Negli anni ’70 la strada è un motivo assoluto, si pensi al terrificante “Duel” di Spielberg che apre il decennio, due anni prima di questo gioiello di Pollack sempre Peckinpah starà per strada con il suo “Convoy”. Dalla e nella strada si riesce a raccontare un parte dell’America. Il cowboy protagonista ha fatto il suo tempo come campione di rodeo, ora fa l’uomo immagine, gira per la Nazione, scopa qua e là, beve molto. All’improvviso, forse ferito nell’orgoglio dalla domanda della giornalista (una splendida Jane Fonda) capisce che non può lasciare andare via così le cose, la sua vita e quello splendido cavallo; lo rapisce quindi, per principio, non è il suo un ritorno al passato, un carnevalata retorica, liberare quel cavallo è un piccolo atto contro il diktat del mercato per cui siamo tutti numeri, gli uomini come gli animali.

Pollack e Redford si diceva, una grande coppia di Hollywood, con il loro spirito indomito e democratico, ma non passivo, retorico, “radical chic” che investirà tanto cinema anche da noi. Sette film insieme, sette film molto interessanti che ci raccontano anche l’evoluzione nel lavoro dei due.

Mi interessa tornare su quel raffronto con “L’Ultimo buscadero” di Peckinpah, un capolavoro. Anche lì viene osservato il capitalismo, attraverso il rodeo, attraverso lo sguardo di un outsider, di un ultimo che però ha avuto la sua gloria, il capitalismo che ti mangia i risparmi, la casa, che ti logora la vita. Il protagonista che ha l’età del protagonista di “Il cavaliere elettrico”, sembra almeno dieci anni più grande, è un uomo finito, stanco, logoro, la sua è una reazione singola, isolata, non sembra esserci una possibilità.

Sonny invece a modo suo non è ancora logoro, sente di poter fare qualcosa, risveglia un’America che è dalla sua parte, non stiamo qui ad indagare il perché o per come, non c’è tempo, si innamora della giornalista, lotta ma senza rabbia. Pollack è quello de “I tre giorni del condor”, si pensi a quel finale ancora attuale, quando l’agente della CIA dice al mal capitato protagonista (un magnifico Redford): “sei sicuro che lo pubblicano?”. Pollack, e Redrford con lui,  crede ancora che si possa fare qualcosa, lui nel suo piccolo continuare a fare film, come Redford del resto.

Il cavaliere elettrico ci mostra un’America ormai lontana ma ancora vicina, ha momenti di bellezza visiva: le valli, le montagne, le sfilate sul cavallo, Redford con le lucine come fosse un albero di Natale. È fotografato benissimo tenendo conto degli umori del film, dei suoi paesaggi, di come si sviluppa la storia, colori bui in città, più aperti fuori dalla stessa. Ci sono poi Redford e Fonda, una coppia che al cinema è sempre vincente ed affascinante, insieme sullo schermo dal ’66 al 2017.

Pollack come detto continuerà con film validi, difficilmente a questo livello, se non per l’ottimo “Tootsie”; ma il suo lascito era già imponente in quel momento, Redford invece dirà ancora molto come attore, regista e direttore.

Eppure, siamo nel ’79, il film sembra la fine di un’epoca e lo è, forse nessuno ne era conscio, ma è un cinema che di lì a poco sta per finire, non solo quello degli “autori al comando”, ma anche quello di questi piccoli protagonisti capaci di incidere sulla loro realtà, in lotta a modo loro, il cinema poi si concentrerà su altro, gli antieroi prenderanno nuove forme e fisionomie.

Una commedia, anche se non si ride, che oggi si mostra in una forma che forse all’epoca non era, per tutti, così visibile. E poi di cowboy ne vedremo pochi altri, e meno interessanti almeno per un paio di decenni, se non in altri generi e luoghi.

 

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