Dolomite is my name (2019) di Craig Brewer

Brewer, regista e sceneggiatore dirige per Netflix un film da non perdere, raccontandoci una parte importante della vita di Rudy Ray Moore: comico, musicista, cantante, attore e produttore cinematografico americano. Eddie Murphy risorge e ci regala un ruolo da ricordare.

“Dolemite is my name and f**king up motherf**kers is my game”

La trama in breve:

Los Angeles. 1970. Rudy Ray Moore è un cantante fallito, vive barcamenandosi tra il suo lavoro di cassiere in un negozio di dischi – affiancato da Snoop Dogg – e la sua carriera mai realmente decollata. Rudy, nell’ultimo tentativo di racimolare del materiale per le sue scenette nei locali underground, registra le rime, le battute e le storie volgari e grossolane di un gruppo di senzatetto. Le loro canzonette sporche e sfacciate accendono una luce dentro la mente di Rudy che sceglie, intelligentemente, di riadattarle e proporle durante i suoi cabaret underground.

Il cinema americano degli anni ’10 ha parlato in lungo e in largo della cultura afroamericana e soprattutto ha cercato, a modo suo, di inquadrare e mostrare la storia americana da un’altra prospettiva, quella degli sconfitti e degli schiavi, che oggi però sono, soprattutto nello show business, come nello sport, i padroni del mondo.

Netflix produce e distribuisce questa commedia all black che ci riporta in maniera sublime a quel cinema che negli anni Settanta produceva film di tutti i generi e, tra questi i film appartenenti alla blaxploitation, uno su tutti, il leggendario Shaft.

Brewer, classe ’71, riesce a ricostruire meravigliosamente una stagione, un umore e lascia tutta la scena che si spetta ad Eddie Murphy che, dopo tanti anni, se la riprende e non la lascia più, ammaliandoci con la sua bravura.

Inizialmente la storia ci mostra la vita di questo cantante fallito, ma mai domo, che passa dal negozio di dischi dove lavora al locale in cui introduce i cantanti, ecco che arriva però il colpo di genio, prima gli album comici e poi un film che dal nulla farà un incasso eccezionale.

Un film all’insegna del trash, ma pieno di un’inventiva figlia di un’esigenza, di una necessità espressiva e di un uomo dall’indubbio talento.

Sembrerebbe un classico film su un self made man, ma non è così. Nella parte iniziale lo spettacolo è all black e ci riporta finalmente un qualcosa di reale sul mondo afro dell’epoca, senza retorica, senza la furbizia di tante sceneggiature odierne; la regia di Brewer, discreto regista americano, è precisa e la storia evolve tra una battuta e l’altra, anche grazie ad una fotografia ottima che ci trascina e ci immerge nei colori e negli umori dei mitici, e allo stesso tempo terribili, anni Settanta.

Il personaggio principale, aiutato da tanti ottimi caratteristi, tra cui un ritrovato, anche se forse troppo sopra le righe Wesley Snipes, riesce ad evolvere e far crescere l’interesse generale per questo film meta-cinematografico; le sue battute sono divertenti e irreverenti, come lo sono le trovate in fase di scrittura del film.

La voglia di Rudy-Eddie di diventare famoso, di far sorridere le persone, di essere al centro dell’attenzione, oltre che di realizzare un film afro per gli afro-americani, è infinita e rischierà il tutto per tutto pur di riuscirci; il personaggio di Snipes, la star del film, gli racconta di come un certo John Cassavetes abbia usato tutti i suoi soldi, ipotecando anche la casa, per fare il suo cinema e Rudy fa lo stesso per il suo progetto e alla fine vince e con lui, oggi nel 2020, vince un Eddie Murphy ritrovato, che snocciola battute come ai bei tempi e soprattutto regge sul versante drammatico, quello di un uomo che per quasi cinquant’anni ha fallito in tutto.

Nel girare il film, Rudy-Eddie diventa il padre di un progetto e di una famiglia in quel momento nata, stringe sempre di più legami imprescindibili con una troupe improvvisata che condivide con lui la voglia di fare qualcosa di diverso.

Un film che riesce a mostrarci una storia black senza cadere negli stereotipi, che inizialmente chiude, vieta il passaggio a chi non è di quella comunità, per poi aprirsi nel finale e incorporare chiunque abbia voglia di seguire Rudy e il suo travolgente cinema fatto di Karatè, belle donne, inseguimenti e grande musica; di grande musica è anche forgiato il film di Brewer e ci trascina a ritmo soul, poi jazz e infine blues nel cuore nero dell’America, un cuore allora come oggi pulsante emozioni, vibrazioni, suoni e idee.

È una gioia per tutti quella che dona questa “risurrezione” di Murphy che è il completo mattatore del film.

Un film da vedere perché fa genuinamente ridere, perché ci (ri)porta ad un’epoca gloriosa e sempre da riscoprire, perché unisce nello stesso film: Murphy, Snipes, Dogg e anche Chris Rock; un film che ti lascia con un sorriso senza scordarsi dei momenti meno belli della vita di quest’uomo, un biopic che non segue la via più semplice.

Come ci suggerisce lo stesso titolo, Rudy è Dolomite, da quando ha ipotizzato il suo film, scritto, interpretato, prodotto con così tanta difficoltà e alla fine con immensa soddisfazione, da quel momento e per sempre sarà Dolomite, personaggio assurdo e allo stesso tempo geniale.

Commovente la dedica finale del film che ricorda la scomparsa del fratello maggiore di Eddie Murphy, avvenuta nel 2017; Murphy è stato tra i produttori del film e a lui il film deve moltissimo, per il carisma infuso al personaggio, per come si è calato nella parte e per aver creduto fino in fondo, come Rudy nel suo Dolomite, in questa bella e riuscita commedia biografica.

Di Matteo Bonanni

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