Un colpo di fortuna – Coup de Chance (2023) di Woody Allen

Di Jacopo Wassemann

Gli ultimi sei anni sono stati particolarmente penosi per chi, come me, è un ammiratore di Woody Allen.

La separazione fra arte e artista non ha retto: a seguito delle accuse rinnovate di molestia sessuale da parte di Dylan Farrow, sua figlia adottiva, molti dei suoi collaboratori lo hanno rinnegato, e i suoi progetti non sono stati più esibiti negli Stati Uniti.

Gli argomenti di accusa o in difesa della condotta di Allen mi lasciano altrettanto perplesso. Sicuramente non concordo con chi ritiene che la distribuzione ed esibizione dei suoi film sia in qualche modo immorale. Ciò non toglie che l’accusa sia molto grave, e che Allen non abbia dimostrato di attribuirle la dovuta importanza.

È noto che l’asserzione di molestia sia stata ufficialmente scartata dalla corte nel 1993, con un verdetto goffamente formulato che diede adito a dubbi più o meno leciti. Il fervore legalista con cui alcuni si aggrappano al risultato di questo processo si rivela spesso contraddittorio. In qualunque altro caso, pochi escluderebbero l’eventualità di una sentenza erronea, specialmente nel sistema giuridico degli Stati Uniti.

Il fatto è che la vita di Allen non è esente da circostanze, quelle sì, conclamate che non possono mancare di far riflettere. La vera sfida etica, allora, non è giustificare la presunzione di innocenza (dovuta a prescindere), bensì considerare l’ipotesi diametralmente opposta: e se Allen fosse, effettivamente, colpevole? Che effetto avrebbe sul modo in cui consideriamo il suo lavoro, e su noi stessi in quanto suoi spettatori?

La sequenza clou di Coup de Chance culmina in una gag visiva piuttosto macabra: un banditore d’asta vende un quadro raffigurante la testa mozzata del Battista, mentre l’amante della protagonista (Niels Schneider) viene letteralmente fatto a pezzi (fuori campo) dagli sgherri del marito. Il dettaglio chiave è che il quadro sia di un pittore caravaggesco non meglio specificato. Perché proprio caravaggesco? Perché non optare per un’altra scuola manierista, o barocca? Si potrebbe ipotizzare che la scelta sia dipesa semplicemente dalla rappresentazione livida e grottesca che caratterizza alcuni dei quadri del maestro, come appunto la decollazione del Battista. Oppure…

In questo stesso quadro, l’unico da lui firmato, Caravaggio (nome di battesimo Michelangelo Merisi) collocò una lapidaria iscrizione nella pozza di sangue che sgorga dalla testa mozzata del santo: “f. michelang.”

Gli storici si dividono sul suo significato: da alcuni inteso come “fra Michelangelo,” per via dell’appartenenza del pittore all’ordine dei Cavalieri di Malta, ma da altri letto come sorta di criptica confessione, “fecit Michelangelo.” Si dà il caso che l’artista fosse fuggito da Roma in seguito all’assassinio (o omicidio colposo?) di Ranuccio Tomassoni, rampollo di una casata benestante. Il fatto gli costò la condanna a morte e l’esilio. Il quadro, dipinto durante la latitanza a Malta, rappresenterebbe allora una presa di coscienza della gravità dell’atto compiuto.

È inconcepibile che Allen, come l’anonimo allievo della scuola caravaggesca, stia tentando qualcosa di simile in Coup de Chance?

Jean Fournier (Melvil Poupaud) è circondato dal mistero. Nessuno sa bene che lavoro faccia e chi siano i suoi clienti, men che meno la moglie Fanny (Lou de Laâge). Circola la voce che abbia raggiunto il successo ordendo l’omicidio di un suo vecchio socio in affari, scomparso da anni senza lasciare traccia, ma in assenza di prove nessuno osa confrontarlo apertamente. Ci si potrebbe aspettare che il regista voglia giocare sul dubbio della colpevolezza, un po’ come accadeva in Manhattan Murder Mystery e Scoop, riservando la verità per il gran finale. Niente del genere: quel tipo di approccio richiede una volontà affabulatoria che Allen sembra aver perso, o meglio, volontariamente abbandonato. Il suo sguardo non è mai stato così disincantato e immune persino alla bellezza del lusso, che mette in scena con inusitato e malcelato disprezzo. Dunque, Jean Fournier = Woody Allen?

L’opera di un artista non ci restituisce mai la sua vita a grandezza naturale. Allen in particolare ha sempre sofferto di questi paragoni, che non rivelano nulla di sostanziale sulla qualità estetica dei suoi film (vedi la demenziale ossessione di numerosi critici e spettatori nell’identificare gli “avatar” del regista in ognuno dei suoi film…). Il collegamento fra personaggio e autore ha senso soltanto come pretesto per discutere di un fatto sociale innegabile: l’incapacità di tollerare l’esistenza di un soggetto al di là delle sue colpe, vere o presunte che siano.

Nonostante sia inverificabile, la colpevolezza di Allen è “effettiva,” nel senso che, in fin dei conti, è trattato da tutti come se fosse colpevole: non è possibile esibire un suo film o collaborare a una produzione da lui firmata senza fornire una previa giustificazione. Allo stesso modo, in termini di costruzione drammatica, non vale la pena fingere che Fournier sia innocente. Allen non si sforza nemmeno di rendercelo minimamente simpatico, come pure faceva per i protagonisti assassini di Match Point (solidarietà di classe) e Irrational Man (affinità intellettuale).

Più che ad Allen, Fournier assomiglia a una caricatura della sua persona pubblica: un uomo privilegiato e intoccabile che si trastulla con le sue creazioni, come un bambino che gioca col suo trenino elettrico. Il paradosso è che, in questo modo, il problema della colpevolezza passa in secondo piano, proprio perché esibita e data per scontato. I colleghi e conoscenti di Fournier sono perfettamente consapevoli del sospetto che lo circonda, ma la riduzione di un problema morale a materia di pettegolezzo fa sì che possano infischiarsene e godersi i suoi ricevimenti, indipendentemente dal fatto che credano o meno alla sua innocenza. Il beffardo finale, “salvando la faccia” del personaggio davanti alla comunità, non fa che rafforzare quest’impressione di irrilevanza.

È qui che personaggio e autore prendono strade diverse: al contrario di Fournier, Allen non beneficia più di una cinica tolleranza del sospetto. È oggetto invece di una altrettanto cinica presunzione di colpevolezza. L’ipotesi di apertura si rivela così una consumata certezza. 

Coup de Chance

Precedente Napoleon (2023) di Ridley Scott. Successivo Le classifiche del 2023 secondo La Luce del cinema