Sideways. In viaggio con Jack (2004) di Alexander Payne

Di Matteo Bonanni

La trama in breve:

Miles, aspirante romanziere e grande intenditore di vini, decide di fare un viaggio con il suo migliore amico Jack, un attore fallito, tra i vigneti della Santa Ynez Valley la settimana prima che Jack si sposi…

Nel rivedere questo film dopo la visione al cinema di “The Holdovers” ho pensato ai due protagonisti dei due film, mirabilmente interpretati dallo stesso gigantesco Paul Giamatti, e ai loro parallelismi. Il protagonista di “The Holdovers” potrebbe essere Miles vent’anni dopo, entrambi non sono diventati quello che volevano, entrambi hanno avuto cuocenti delusioni personali, entrambi si ritrovano ad insegnare quando sognavano altro. Forse Miles ha ancora una speranza come il finale ci porta a pensare; mentre Paul dedica la sua vita ad aiutare dei giovani a formarsi, per lui è un imperativo, forse per commettere errori come il suo, oltre al voler livellare quello che la società non livella fin dalla nascita.

Il cinema di Payne è un cinema di facce, di primi piani, di visi: si pensi a Laura Dern di “Ruth” e ancora Mattew Broderick in “Election”, Jack Nicholson (in un ruolo totalmente sui generis per lui) in “About Smidth”, a Giamatti nel dittico di cui abbiamo appena parlato; Payne riesce a far brillare degli attori fenomenali oltre le loro già importanti qualità. Da non scordare l’eccezionale personaggio e prova di George Clooney in “The Descendants”.

In “Sideways” (ovvero laterale o lateralmente), i protagonisti del film si ritrovano in una settimana; tempo e spazio hanno una grande importanza nel film, scandiscono l’andamento della commedia, all’insegna del vino e dell’amicizia.

In questo viaggio, tra bicchieri, corse, litigi e sesso, si ritrovano a conoscersi meglio. I due amici sono agli antipodi: uno timido, introverso, intellettuale, pessimista, l’altro sbruffone, belloccio, spigliato, senza freni.

Payne e Taylor traggono dal romanzo di Rex Pickett, uscito lo stesso anno, un ennesimo sguardo sull’uomo e le sue piccolezze. I protagonisti sembrano vivere in un caos senza una meta o una guida; di bicchiere in bicchiere, di giorno in giorno, in un non tempo soprattutto per Jack che vuole evadere dalla sua realtà.

Mentre Jack ha modo di evadere, a modo suo, fregandosene di tutto e tutti, dei loro sentimenti o pensieri, Miles cerca, con vari punti di rottura, di uscire dal suo torpore umano e artistico. Il suo libro non verrà pubblicato, l’ex moglie non tornerà, il suo migliore amico è quel che è, non rimane che correre all’impazzata in una vigna, gridare contro un cameriere, e lasciarsi andare con la bella Maya fino al catartico (?) finale.

Il road movie è la cifra del regista; del resto, pur avendo una predilezione per il cinema europeo (in questo film anche al livello visivo i richiami sono tanti), la sua visione e il suo “Humus” sono prettamente americani e in America lo spostamento, il viaggio, la macchina assumono un valore quasi salvifico. Miles guida alla fine da solo, guida all’inizio dopo il traumatico risveglio, guida una vecchia, già all’epoca, Saub (macchina europea).

L’amico, Jack, gli romperà la macchina, ma questo non cambierà le cose; lui prima di salirci di nuovo sopra, nel finale, aprirà la famosa bottiglia del ’61 e poi ancora in macchina, ancora a scappare o forse affrontare la sua vita presa spesso lateralmente ma forse con la voglia, questa volta, dopo tante esperienze di prenderla di petto e di faccia.

Come si diceva, la fotografia, la regia e il montaggio sono al massimo livello di sperimentazione per il cinema di Payne: gli split screen, la macchina a mano, il montaggio frenetico di alcune piccole scene. Ci sono scene da ricordare e che si ricordano a distanza di anni come quella di cui Miles-Paul si alza da tavolo, preceduto da vari stacchi che anticipano la sua intenzione e il suo stato d’animo e va a chiamare l’ex moglie dopo aver scoperto che si è risposata.

Giamatti si concede ad un tour de force senza pari, è quasi sempre al centro dell’inquadratura, tornerà allo stesso modo in “The Holdovers”. E’ il suo sguardo, è quel sorriso a far capire dove sta andando la storia, dov’è stato il protagonista prima; è attraverso la sua maschera che capiamo la sua difficoltà ad affrontare tutto: un rapporto difficile con madre e sorella (del padre non sappiamo nulla), il recente divorzio, la non vita sessuale, l’infruttuosa carriera letteraria.

Giamatti riesce a condensare tutto in quei momenti in cui ride/sorride/sbuffa, in quelle piccole sfuriate. Ci diverte, ci fa riflettere, ci mostra, da grande attore, qualcosa di lui e qualcosa di noi, le nostre piccolezze senza reticenze, senza riserve, senza nascondersi.

Miles è un uomo radiografato, mostrato per intero senza il timore (la vecchia Hollywood è distante!) delle piccolezze, delle brutture. E’ una piccola forza, e dopo tutto non si arrende o almeno non del tutto; si prenderà le sue piccole rivincite con sé stesso.

A tratti Payne ci regala un documentario sul fare il vino, ma per il resto porta sullo schermo una delle commedie più belle degli ultimi lustri; si ride di gusto e si riflette su queste vite sperse e decentrate-laterali, delle tragicomiche avventure dei due protagonisti, si ride sempre con un retrogusto amaro.

Per sette anni il regista non dirigerà lungometraggi, dopo il successo di “Sideways”, ma tornerà con un altro capitolo e ritratto di uomini in crisi, alle prese con un film etico. “Sideways” rimane probabilmente la sua vetta, per ora, un film riuscito in pieno dove tutte le componenti funzionano a meraviglia, con alcune scene d’antologia: Giamatti che beve la famosa bottiglia in un fast food post nozze dell’amico; un film vitale, imponente e che a vent’anni di distanza ha ancora una forza intrinseca.

Da notare poi un passaggio interessante, ovvero il momento del rifiuto del libro (tanto apprezzato da tutti) di Miles, non si può non pensare che quell’accusa al mercato (letterario) non sia anche rivolta al cinema ed Hollywood che dagli inizi del’00 hanno messo a tacere, o meglio hanno “integrato” i giovani autori emersi a fine millennio in un sistema nuovamente con poche vie d’uscita e dominato dalla produttività più che dall’arte.

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