Henry: Portrait of a Serial Killer- Henry, Pioggia di sangue (1986) di John McNaughton

In Caro Diario Nanni Moretti si ritrova in estate ad andare al cinema (il Fiamma di Roma) e vedere Henry, Pioggia di sangue. Uscito dalla sala vaga per ore nel tentativo di ricordare chi o dove avesse letto una buona critica del film. Ieri sera mi sono ritrovato per qualche minuto nello stesso stato del regista romano. Per anni e anni ho rimandato la visione di questo cult anni Ottanta; dato il nuovo approfondimento ho deciso che finalmente lo avrei visto

La trama in breve

Henry è uscito da poco di prigione e vive con il suo amico Otis, conosciuto in prigione. Henry è un killer e uccide, per lo più donne, in modi diversi per non farsi catturare. Con l’arrivo della sorella di Otis qualcosa cambia. Henry e Otis iniziano ad andare in giro la notte uccidendo e spesso riprendendo il tutto. Questo sodalizio non durerà a lungo ed Henry riprenderà il suo cammino da solo.

Al suo secondo film John McNaughton sceglie una storia di grande impatto. Henry è ispirato al personaggio di Henry Lee Lucas, “il più famoso e feroce serial killer d’America”, un personaggio molto controverso che si è dichiarato colpevole di almeno seicento assassinii. Oltre che per l’aver avuto un’infanzia di soprusi e violenze, Lee è famoso per la sua megalomania; il film sceglie di seguire proprio quest’ultima, non gli interessa la realtà o tanto meno la “verità”.

Il film è stato girato con un budget veramente misero e vive difatti di uno stile e di mezzi “poveri”; la storia non ha niente di originale, se non il fatto di seguire i racconti del serial killer e non i fatti di cronaca o i dossier del tribunale. In precedenza, Mario Bava e John Carpenter avevano affidato allo sguardo di un killer la guida dello spettatore, in questo caso invece si sceglie proprio di seguire le testimonianze, fantasiose, del celebre serial killer.

Il profilo psicologico del personaggio non viene ben delineato, solo nelle brevi conversazioni con Becky riusciamo a capire che l’uomo ha avuto un passato violento, segnato poi dal gesto fatale e finale dell’omicidio della madre. Il regista, nonché sceneggiatore, riesce nei pochi dialoghi a mostrare la megalomania e l’assoluta precarietà dei racconti del protagonista, che cambia spesso versione dei fatti.

Il film è visivamente grezzo, volente o nolente, e anche grazie a queste immagini anti-spettacolari riesce a costruire un’aria malsana; per lo più i protagonisti vivono di notte, in cerca di donne o di persone da uccidere, al regista non interessa indagare il perché o il come. Nella prima parte la regia relega la violenza fuori dall’impianto diegetico, se non per gli inserti audio che descrivono, insieme alla visione di corpi insanguinati, gli omicidi di Henry.

Otis sembra essere il personaggio più amorale di tutti, mentre la regia cerca di farci empatizzare con Henry, che soprattutto nel rapporto con Becky ha degli istanti di umanità. Henry è e rimane un mostro, capace di uccidere barbaramente chiunque e senza un motivo apparente.

La regia che sceglie spesso l’uso dello zoom all’indietro, segue uno sviluppo narrativo circolare in cui una serie di eventi si susseguono senza un’apparente connessione; la fotografia volutamente grezza riesce a contrastare l’edonismo imperante nel cinema mainstream degli anni Ottanta.

Il film è stato censurato e tagliato per anni, prima di esser mostrato per intero con il suo finale; in Italia il film è uscito quattro anni dopo la produzione e in Francia il finale è stato addirittura stravolto. Nel corso degli anni è diventato un cult, anche e soprattutto per l’interpretazione estraniata ed estraniante di Michael Rooker, che riesce ad incarnare in sé la spaventosa violenza e deviazione di questo personaggio. John McNaughton ha diretto poi vari film che hanno ottenuto un buon successo, allontanandosi molto dallo stile di questo film, ma rimanendo attaccato a storie disfunzionali e amorali.

L’anno precedente alle riprese era uscito un altro film su Henry Lee, Confessions of a Serial Killer uscito velocemente dal circuito e relegato nell’anonimato quasi totale.

Il film non colpisce/infastidisce per la durezza delle immagini o per la violenza degli omicidi, da ricordare la citazione con tanto di filmino amatoriale della scena di stupro di Arancia Meccanica; colpisce per il suo aspetto trasandato e per l’aria di totale amoralità, aspetto che ne è il pregio, ma forse, anche il difetto.

L’analisi del film non è psicologica o tanto meno tesa ad indagare i fatti, ma riflette almeno in parte sul ruolo del cinema e della finzione, con una storia che si basa formando un corto circuito, su una storia che i fatti segnalano come interamente inventata. Crudo, violento, malsano, un cult anni Ottanta!


 

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