Il lago delle oche selvatiche (The wild goose lake) (2019) di Yi’nan Diao

Di Jacopo Wassermann

Febbraio 2020. Prendo posto nella sala Fernando Lopes, a Lisbona, sperando in un appuntamento galante che, alla fine, non accadrà. Non sono consapevole, né potrei esserlo, che il titolo originale del film che mi appresto a vedere, Il lago delle oche selvatiche, sia in realtà qualcosa di simile a Appuntamento in una stazione del sud. Non so nemmeno che il film sia ambientato nella regione di Hubei, nei dintorni della città di Wuhan, la quale, appena pochi giorni dopo, avrebbe tristemente acquisito fama mondiale. E ovviamente ignoro che l’incipit del film sia proprio un appuntamento mancato fra un latitante e sua moglie. Se questo non è noir…

La cecità riguardo all’avvenire è una delle figure chiave di The wild goose lake, le cui vicende sono precipitate da uno sparo che il protagonista Zhou Zenong (Ge Hu), ferito e in fuga sotto una pioggia torrenziale, dirige accidentalmente contro un poliziotto in un posto di blocco. Laddove nel film precedente del regista Yiao Dinan, Black coal, thin ice (2014), il regime poliziesco rivelava la sua insufficenza rispetto all’imprevedibile potenziale d’azione degli individui, qui i personaggi sono ridotti a pedine catturate dal vortice di un sistema troppo complesso e ottuso per poter essere compreso.

Le fazioni di poliziotti e criminali si distinguono nei fini, non nei metodi: in un accostamento per niente casuale, la militarizzazione di entrambi i lati è palesata dal comune approccio strategico al controllo del territorio, sia che si tratti di refurtiva o di una caccia all’uomo.

Il film è di ambientazione prevalentemente notturna, ma la fotografia e l’illuminazione sono fortemente stilizzate e antinaturalistiche. L’azione è spesso resa leggibile da fonti di luce che, a rigor di logica, non potrebbero essere presenti nel contesto presentato. Paradossalmente, questa scelta rafforza l’impressione di cecità e impotenza dei personaggi, rendendo lo spettatore partecipe di uno sguardo distaccato che alleggerisce le tonalità più cafoni del racconto e dell’immagine.

La forza del Dinan in quanto regista è da rilevarsi nel modo in cui questo apparente senso di superiorità non si traduca in bieco cinismo o (come tanti l’hanno frainteso) puro esercizio di stile. Non solo il film si basa su di un evento di cronaca locale (proseguendo una tendenza particolarmente diffusa nel cinema cinese contemporaneo), ma anche evidenzia a più riprese le conseguenze patite a livello individuale e sociale a seguito degli eventi narrati. C’è sempre qualcuno che paga, e il prezzo è reale, non un denouement di maniera.

Per questo il gioco citazionista, cui pure Dinan partecipa, lascia il tempo che trova. Durante la visione di The wild goose lake vengono in mente decine e decine di modelli e riferimenti possibili (alcuni sicuri). Il sovversivo amoralismo del Lang di M (1931). Il labirinto degli specchi in The lady from Shanghai (Orson Welles, 1947). La fuga e la dinamica relazionale de À bout de souffle (Jean-Luc Godard, 1960). L’attenzione ossessiva e sistematica ai dettagli operativi di Michael Mann. Le esplosioni di violenza imprevedibili e subitanee di Takeshi Kitano. Il gusto per l’illuminazione e la composizione del tardo Nicolas Winding Refn. La lista potrebbe continuare. Il punto è che il risultato finale non è un’accozzaglia di citazioni sconclusionate, bensì un’opera compatta e ambiziosa che riesce a sorprendere a dispetto di una narrativa improntata sull’inevitabilità della condanna.

La magistrale sequenza d’intermezzo nel ristorante Junping rende chiara l’originalità e, forse più importante, la genuinità del lavoro di Yinan.

Seguiamo la coprotagonista Aiai Liu (Gwei Lun-Mei), una passeggiatrice incaricata dal suo protettore Huahua (Dao Qi) di fare da tramite con il fuggitivo Zenong. Aiai si reca al luogo combinato, mescolandosi fra la folla, ma qualcosa va storto: nota delle facce strane, non è sicura se siano dei loro o degli sbirri in borghese. Un membro della banda di Zenong viene riconosciuto. Prova a fuggire, ma ne nasce una sparatoria. A questo punto sarebbe da aspettarsi che il montaggio si concentrasse sui tiratori di entrambi i lati, magari accompagnando parallelamente il panico e la fuga di Aiai. Invece è proprio su di lei che Yinan si sofferma, lasciando che la sparatoria avvenga soprattutto fuori campo. Qualsiasi civile indifeso in una situazione del genere cercherebbe riparo, allontanandosi il più possibile dallo scontro a fuoco. Yinan e il direttore della fotografia Jinsong Dong si servono di campi larghi durata per rappresentare ancora più efficacemente lo spaesamento di Aiai. Una trovata geniale, al contempo ansiogena e di un umorismo piuttosto macabro, è che il personaggio finisce sempre col mettersi in mezzo alla linea di fuoco: l’inseguimento fra poliziotti e criminali prosegue durante la sua fuga e, come è ovvio, Aiai non ha nessun modo di prevedere in quale direzione si dirigano.

Una soluzione del genere sarebbe stata impensabile in uno qualsiasi dei casi sopracitati. Nell’opera di Mann vi sono delle sequenze vagamente paragonabili: la rapina in Heat (1995), la sparatoria in discoteca in Collateral (2004), o anche l’imboscata a Little Bohemia Lodge in Public enemies (2009). Va detto, però, che, in ognuno di questi casi, il montaggio si concentra prevalentemente sui perpetratori: le vittime accidentali sono presenti e hanno un peso, ma vengono rapidamente abbandonate ai margini dello schermo. Viceversa, si provi a immaginare una versione alternativa della sequenza in discoteca di Collateral nella quale la regia si mantenga sempre e soltanto sul personaggio interpretato da Jamie Foxx, lasciando la pur strepitosa mattanza del killer di Tom Cruise fuori campo. Questo buffo esercizio dovrebbe bastare a evidenziare come Yinan si serva sì di modelli, ma senza che la sua visione ne venga compromessa.

Nella misura in cui un esemplare isolato può rappresentare la sua specie, The wild goose lake è l’ennesima conferma dell’audacia formale del cinema cinese contemporaneo. Non è affatto raro imbattersi in letture riduttive che assimilano l’industria cinese a una vaga idea di “cinema asiatico,” impostando la loro chiave di lettura su paragoni con cinematografie più convenzionalmente conosciute, come quella sudcoreana e giapponese, o le produzioni locali di Hong Kong e Taiwan. Pur dovendo fare i conti con un comitato di censura draconiano, che si riserva il diritto di far sparire dalla circolazione opere a qualsiasi stadio di sviluppo, i cineasti cinesi (fra i quali cito almeno Jia Zhang-ke, Lou Ye, Wang Bing, Xiaoshuai Wang, Bi Gan, Ruijun Li, il nostro Diao Yinan e il compianto Bo Hu) hanno realizzato alcuni dei lungometraggi più sorprendenti e memorabili degli ultimi quindici anni, né sarà un caso che molti di loro si siano rivolti (almeno occasionalmente) all’immaginario noir, da sempre specchio conturbante di malesseri sociali, morali e politici. Proprio in funzione dell’insularità culturale di facciata promossa dal regime centrale, le produzioni di questi e molti altri registi acquisiscono caratteri inassimilabili a qualsiasi altro contesto geografico.

The wild goose lake è quindi, allo stesso tempo, rielaborazione personale di un genere e spaccato di vita fedele e provocatorio. Che è più di quanto si possa dire di tanti altri ibridi contemporanei.

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