Il Verdetto (The Verdict) 1982 di Sidney Lumet

Di Matteo Bonanni

Frank Galvin, il protagonista, va in ospedale per scattare le foto alla sua cliente, ormai ridotta ad uno stato vegetale. Certamente lo fa per poter chiedere più soldi alla controparte, per creare della pena nel suo interlocutore, il vescovo dell’arcidiocesi. In quell’atto tecnico ma anche artistico, dopo dieci anni in cui la sua vita non ha avuto alcuno scopo, se non quello di bere da una bottiglia, in quei due scatti, che poi guarda e riguarda, trova uno “scopo”, capisce di non poter andare oltre, di non potersi “vendere” sennò per lui sarà la fine. Il cinema di Lumet del resto è tutto qui. E’ un cinema che da 25 anni, all’epoca, da “La parola ai giurati” in poi, ha indagato la società occidentale e ha cercato di svelare con occhio vigile e progressista le nefandezze della società; insomma un cinema che svela o cerca di far luce sulla società e sull’uomo.

 

La trama in breve:

Frank Galvin (Newman) è un avvocato alcolizzato che ha dovuto abbandonare la carriera perché coinvolto in un caso di corruzione. Oggi s’è ridotto a correre dietro alle cause di risarcimento relative agli incidenti automobilistici. Finché un vecchio collega che gli affida un caso complesso: la difesa di una donna che, operata in un ospedale cattolico, per un errore degli anestesisti ha perso vista e parola ed ormai è in coma da quattro anni.

“A bunch of whores”- un branco di puttane. Quando Galvin, nell’affannosa ricerca di una qualche prova schiacciante, va a cercare l’infermiera che poi scopriremo essere colei che protegge la giovane maestra scappata a New York, nel cercare di spronarla a dirle chi o cosa protegge, riceve questa eloquente risposta che il doppiaggio italiano ha per altro tradito. Anche il marito della sorella della vittima dei dottori dice lo stesso, sempre a Galvin.

Queste frase reiterata ci porta ad uno dei punti centrali del film, che parla in parte della crisi. Non è solo quella del protagonista, fin da subito inquadrato come un ultra-cinquantenne con le spalle al muro e senza alcuna speranza, come ci mostra la sconsolante scena iniziale, in parte ripresa, nonostante la vittoria in tribunale, nel finale come a dire che dalla crisi non si esce. Non è solo la crisi dell’uomo e di una donna, che incontra sul suo percorso, ma la crisi conclamata di un sistema in cui pazienti, operai e cittadini non possono che temere soprusi e negligenze da parte chi ha il potere.

C’è la corte, i dodici “angry” man del capolavoro del ’57, c’è forse lì per Lumet (ripetiamo il forse) un minimo di possibilità, di speranza che qualcosa nel processo che porta ad una sicura “ingiustizia” vada a favore di quella che definiamo giustizia.

Lumet l’anno prima aveva realizzato il suo “Serpico” degli anni’80, con momenti alla Scorsese, è vero, ma sempre incline a quella ricerca, a quel voler smascherare la realtà americana, la corruzione inerpicata in qualsiasi pertugio della società (parlo de “Il principe della città” – Prince of the City). Con “Il Verdetto”, scritto da Mamet, torna al dramma giudiziario, anche se va detto che la parte in aula per quanto eccellente non è il fulcro del film.

Lumet è stato un grande regista e questo è noto. La dimostrazione in questo film consiste nell’uso armonico dello zoom, che interviene a dare forza alle scene clou, ma anche e soprattutto nei piani sequenza che lasciano spazio ad un cast che dire eccellente è dir poco. Forse Lumet è stato ancora più bravo che come regista, nel dirigere gli attori, bravissimi e capaci di prove di un’amarezza annichilente.

Mason è un “cattivo” freddo e viscido, la Rampling dipinge benissimo questo personaggio femminile così dolente e subdolo, Warden è semplicemente il massimo in fatto di spalla recitativa che si possa trovare al cinema, ma del resto in ogni film ha sempre offerto prove indimenticabili o quasi.

Lumet è il suo cinema democratico, indignato, a volte retorico. In questo caso come valore aggiunto, nelle due ore del film, i personaggi sono resi in maniera incredibilmente dettagliata, risultano reali, viscerali e vivi. Oltre ad una regia che riesce a trovare la soluzione giusta per ogni scena ad ambiente (dai campi lunghi in esterno allo zoom negli interni tanto amati dal regista, dove si svolge la vita occidentale del resto), c’è stato un lavoro fantastico sul personaggio di Galvin.

Paul Newman aveva già mostrato questa dolenza, questa drammaticità nel personaggio del film realizzato nel 1981, un piccolo film con un grande Newman di cui ho scritto, Fort Apache The Bronx, ma qui riesce ad offrire una delle sue prove più incredibili.

Non è più il giovane antieroe dei western, il ribelle per antonomasia di Hollywood, bello e sbruffone, eppure fragile, in preda a crisi di nervi, in cerca di qualcosa che non troverà; qui è un uomo adulto, disperato, in crisi. E’ anzi forse uno dei personaggi che meglio ha rappresentato, almeno ad Hollywood, cosa può essere un uomo in crisi, con lo sguardo teso verso il basso, con quella postura senza scheletro, eppure pronto a ribellarsi a sé stesso, al suo malessere, che crede ancora in un piccolo barlume di speranza, nonostante tutto. La speranza certamente Galvin la trova in sé stesso ma anche negli altri, nel suo amico e mentore, nella donna che lo tradirà, nei dodici giurati che possono compiere la giustizia.

Un cinema morale, umano, umanista, che riesce a mostrare i pertugi della società, le brutture del potere, le sofferenze degli uomini, ma anche l’interiorità dei suoi personaggi. Tutto questo perché il protagonista cerca uno scopo per vivere, ma anche anela un sollievo affettivo, cerca qualcuno che lo aiuti a rimediare ai disastri commessi e che non riesce a dimenticare.

Ancora varie scene vanno segnalate: l’incontro con la maestra, quello sguardo quando vede il biglietto messo nel taschino della giacca; ancora Newman-Galvin che gioca a flipper ed esulta, il secondo tentativo poi riuscito (?) di abbordare la Rampling e ancora il pugno dato sempre a lei. Per finire l’arringa di Galvin che indubbiamente si pone come degno finale della vicenda.

Un film in cui praticamente funziona tutto a meraviglia, la sceneggiatura a prova di bomba, una regia semplice eppure perfetta, il cast e soprattutto la prova di un Newman ispirato e convinto del suo ruolo, della bontà di questa performance e di questo personaggio che ha tanto da dire sul nostro sistema e sulle nostre crisi interiori e personali.

Un film, o forse Il film, sulla crisi; un Lumet degno dei suoi massimi capolavori.

 

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