La ragazza di Stillwater (Stillwater) (2021) di Tom McCarthy

 

Settimo film di Tom McCarthy questo “Stillwater”, da noi “La ragazza di Stillwater”, ad un anno da “Timmy Frana” e a cinque da “Il Caso spotlight”, che gli fece vincere l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, insieme a Josh Singer.

 

La trama in breve

Bill Baker, operaio petrolifero dell’Oklahoma, arriva a Marsiglia per stare vicino alla figlia Allison, da cinque anni in carcere dopo la condanna per un omicidio che dice di non aver commesso. Nel tentativo di dimostrare l’innocenza della figlia, Bill, frenato dalle incomprensioni linguistiche e culturali, s’imbatte nell’attrice Virginie, dalla quale si fa aiutare per traduzioni e ricerche. Poco alla volta l’uomo ritrova il rapporto con Allison, alla quale fa spesso visita in carcere, e avvia una relazione con Virginie e la figlia Maya, nella quale vede l’occasione per redimersi dalle sue mancanze di padre. L’ossessione per il destino della figlia, però, rischia di mettere a repentaglio la sua nuova vita.

 

Bill, il protagonista, è un uomo, un americano sicuramente, e lo si vede e lo si capisce in tutta la sua esteriorità, un americano in trasferta; ma Bill è soprattutto un uomo che cerca di costruire o meglio ri-costruire. Lui costruisce, mette a posto, monta e smonta per lavoro, ma soprattutto cerca di ricostruire il rapporto con la figlia, perduto da tempo, un nuovo rapporto con una donna e con la figlia di lei, e come tutti noi, o quasi, è un uomo che fallisce, sbaglia e quando sbaglia, paga le conseguenze dei suoi errori.

McCarthy, come l’italiano Cito Filomarino con il suo “Beckett” prodotto americano, va in trasferta, in questo caso a Marsiglia, città molto filmata. Lo sguardo con cui il regista e sceneggiatore approccia alla città francese è intelligente. Fin da subito capiamo che il film usa toni ed immagini realistiche nel tentativo di dipanare una trama tipicamente da giallo; ma in realtà il film parla di sentimenti, di delusioni, di rancori che non si riescono a sconfiggere, della difficoltà di gestire i rapporti umani e “l’amore”.

Il film è permeato su un Damon al massimo della sua bravura, che gioca in sottrazione e riesce a tracciare un personaggio di grande realismo. E’ proprio il realismo, l’abbiamo detto, la cifra del film ma senza entrare in riferimenti a casi realmente accaduti; non è lì che il film vuole andare, non sono le indagini, la morte di qualcuno, non sono i rapporti di forza che si stabiliscono tra le nazioni in questo casi. E’ pur vero che Pollack si potrebbe considerare la massima ispirazione per la presa da “thriller”, ma il film si concentra sui personaggi e in alcune immagini e scelte riesce a convincere, regalandoci un piccolo gioiello “hollywoodiano”.

Le azioni dei protagonisti sono credibili; i sentimenti contrastanti, che arrivano dal passato e che percorrono tutto il film, hanno dei punti di svolta importanti ma non sono mai tracciati, come in certe sceneggiature fatte apposta per arrivare a quell’emozione; il finale poi ne è una dimostrazione. Bill è un uomo solo, un perdente, la figlia non lo stima, la moglie si è suicidata (non sappiamo il perché), la suocera lo considera  poco capace, ha avuto varie dipendenze, ed è lui ad ammetterlo spesso.

Arriva a Marsiglia ancora una volta pensando di stare poco ma si trova dentro ad un qualcosa più grande di lui. Fortissima è la voglia di dimostrare l’amore per la figlia, sentimento che non hai mai manifestato veramente; nonostante gli errori che commette, solo tramite lui e le sue azioni la storia evolve, e i personaggi riescono ad arrivare ad una nuova meta.

Le scene con la figlia fuori dal carcere sono di grande forza, il regista non è nuovo a questo tipo di personaggi complessi, a questi incontri-scontri, ma è anche nella “nuova vita” di Bill che il film riesce a trasportarci con empatia, mostrando lo sforzo di un uomo di uscire dal suo ruolo di americano provinciale e un po’ ignorante.

Lo sguardo su Marsiglia, dicevamo, è interessante perché non dipinge una cartolina. L’ingresso nella periferia ha la sua durezza visiva e tematica, ma è proprio nella scrittura che il film riesce a mostrarci due dimensioni, due realtà diverse: Stillwater e Marsiglia, e dentro Marsiglia un mondo nel mondo con tutte le sue differenti culture.

Un film su un padre che cerca di salvare sua figlia, e soprattutto il loro rapporto, ovvero un tema caro al cinema degli anni ’10 del duemila come ci ha raccontato molto bene un saggio eccellente che è “Fabbrica di sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema Usa. 2010-2019” di Stefano Santoli.

La trama da thriller, pur con i suoi ottimi momenti in stile anni ‘ 70 con tanto di passaggio “horror”, passa in secondo piano quando sale di tono il dramma di un uomo che cerca per la prima volta di capire, di dimostrare di essere qualcosa di diverso rispetto a quello che le persone  credono. Se vogliamo c’è anche il tentativo di uscire dagli stereotipi dell’americano in trasferta, seppur mantenendo alto il livello di realismo con uni Bill-Damon americano al 100%.

La fotografia riesce a cogliere momenti di “poesia” non solo nelle scene cardine del dramma ma anche in momenti semplici e spontanei, riuscendo così a scardinare, in parte, certi meccanismi del cinema americano.

Il ritmo non è così serrato come dovrebbe essere in un thriller e questa scelta spiega l’idea di regia alla base. I toni spesso sono divertiti e sarcastici, la sceneggiatura è ottima e, come già detto, Damon offre una delle sue migliori interpretazioni.

Un film che riesce a colpirci per la profondità con cui scava nei personaggi, senza mai esagerare, senza mai andare oltre la sua idea iniziale. In pratica un dramma più che un thriller. Dopo “L’ospite inatteso” e “Il caso Spotlight”, un’altra perla di McCarthy.

 

Di Matteo Bonanni

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