La Città ideale (2012) di Luigi Lo Cascio

Di Jacopo Wassermann 

Esiste un noir all’italiana?

Si tratta di un quesito solo apparentemente provocatorio.

Se è vero, come tutti sanno (o dovrebbero sapere), che il cinema di genere italiano abbia attraversato mondi ed estetiche fra le più disparate, dall’horror al fantastico alla fantascienza e ovviamente al western, il noir vi figura in modo molto più elusivo e ingannevole, sovente fagocitato da altri discorsi e narrative. Basta fare un rapido appello per rendersene conto (chiedendo venia in anticipo per sviste inevitabili ed eventuali sparate polemiche).

Giusto per citarne alcuni: Ossessione (Luchino Visconti, 1943) è un noir? E Riso amaro (Giuseppe de Santis, 1949)? Cronaca di un amore (Michelangelo Antonioni, 1950)? L’assassino (Elio Petri, 1961)? In ognuno di questi casi si potrebbe rispondere: sì…e no. Gli elementi fondamentali che richiamano il genere sono presenti, ma asserviti a una rappresentazione tangibile della realtà che impedisce loro di acquisire una valenza dominante nella messinscena.

Certo, si potrebbe far notare come questi esempi si collochino prima della vera e propria esplosione del cinema di genere, che avvenne fra gli anni Sessanta e Settanta, ma un allargamento di veduta solleva altrettanti problemi e contraddizioni. In Italia si producono polizieschi, poliziotteschi, gialli, commedie nere, film sulla mafia o più in generale sulla malavita organizzata…e il noir?

Un’altra ipotesi sarebbe quella di riconoscere in queste varie rielaborazioni la cifra stilistica del noir all’italiana. In tal senso, un confronto con lo spaghetti western dovrebbe evidenziare i limiti di questa interpretazione.

Lo spaghetti western fu sì una rielaborazione stilistica (meno omogenea di quanto si pensi) di un immaginario pre-esistente, al quale apportò variazioni significative (meno pionieristiche di quanto si voglia far credere), ma rimanendone comunque riconoscibilmente ancorato. Il giallo, il poliziottesco e i film sulla mafia recano ognuno elementi riconducibili al noir, ma, allo stesso tempo, se ne collocano in disparte, in un’autonomia formale difficilmente risolvibile. Per dirla in parole povere: Chinatown (Roman Polanski, 1974) è chiaramente qualcosa d’altro rispetto a The maltese falcon (John Huston, 1941), ma non vi è alcun dubbio che siano entrambi noir. Viceversa, è più difficile assistere a qualcosa come Cadaveri eccellenti (Francesco Rosi, 1976), Cani arrabbiati (Mario Bava, 1974) o La polizia sta a guardare (Roberto Infascelli, 1973) e definirli noir senza alcuna esitazione. Eppure vi è chi li considera alla stessa stregua, né si può dare loro torto. Non c’è niente di errato, di per sé, nel voler leggerli in questo modo. Il problema è che così si estendono i confini di pertinenza della categoria a punto tale da frantumarla. Esiste una differenza fra noir, giallo, poliziottesco ecc.? O è tutto un’amalgama indistinta?

Mi permetto di insistere su queste piccolezze proprio perché ritengo che nel cinema italiano sia possibile rinvenire una vena noir, la quale non passa necessariamente per gli stilemi narrativi e stilistici delle produzioni americane (influenzate a loro volta dall’espressionismo, realismo poetico e neorealismo), ma ne conserva lo stesso caratteristico turbamento. Mi riferisco al cosiddetto “noir dell’anima,” curiosa espressione nella quale, salvo lapsus, non mi sono mai imbattuto in altre lingue o contesti produttivi.

Per “noir dell’anima,” si può intendere una narrativa che scandagli le motivazioni e contraddizioni psicologiche di uno o più personaggi e delle loro relazioni, come se si trattasse di una trama poliziesca. Può accompagnarsi ad elementi di stampo criminoso, ma, qualora siano presenti, non vi svolgono un ruolo centrale, limitandosi a fornire una cornice o a sciogliere nodi di trama.

Concentrandoci su tempi più recenti, possono considerarsi in questo senso L’amore molesto (Mario Martone, 1995), L’imbalsamatore (Matteo Garrone, 2002), Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino, 2004), La bestia nel cuore (Cristina Comencini, 2005), La sconosciuta (Giuseppe Tornatore, 2006), Nessuna qualità agli eroi (Paolo Franchi, 2007), Colpo d’occhio (Sergio Rubini, 2008), Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008), La doppia ora (Giuseppe Capotondi, 2009), Una vita tranquilla (Claudio Cupellini, 2010), e La città ideale (Luigi lo Cascio, 2012), che funge da pretesto per questo articolo. Mi auguro che questa breve carrelata (forzosamente ridotta) basti ad evidenziare la persistenza di un certo approccio al genere, basato sullo studio di personaggi la cui interiorità monopolizza la tensione narrativa. La preminenza data alla soggettività è ovviamente un punto in comune con il noir “tradizionale,” ma laddove la scuola americana tende a enfatizzare il conflitto con un ambiente circostante (che sia una città o un quartiere, la gerarchia poliziesca o criminosa), il noir dell’anima lo restituisce in sordina, concentrandosi piuttosto su archi puramente emotivi e psicologici. Nel primo caso, si parte dagli eventi drammatici per arrivare ai personaggi; nel secondo, si parte dai personaggi per arrivare agli eventi.

Voglio soffermarmi su La città ideale, da un lato, perché lo ritengo emblematico di questo fenomeno, e dall’altro, perché a dispetto delle sue goffaggini e ambizioni eccessive, continua a essere uno degli esordi alla regia più interessanti che si siano visti in Italia nell’ultima decina d’anni (so bene che è paradossale parlare di “esordio” quando lo Cascio è una delle stelle del mercato nostrano da almeno vent’anni, ma tant’è…).

Il film possiede una sorprendente identità formale, che oscilla fra il teatrale, l’onirico, il letterario e il cinema di impegno civile. La forza e insieme la fragilità dell’opera stanno nell’abilità del lo Cascio regista-sceneggiatore a passare da un registro all’altro, il che a volte è complicato dalle necessità contraddittorie dell’intreccio. La vicenda nella quale si ritrova invischiato il protagonista Michele Grassadonia (interpretato da lo Cascio), definita alquanto “improbabile” dal suo stesso avvocato (Massimo Foschi), mira a svelare l’Assurdo che si cela al di sotto della superfice delle cose, e di come se ne possa venire facilmente distrutti. Il problema è che, per rappresentare questo smascheramento, lo Cascio è costretto a descrivere minuziosamente i procedimenti penali che si instaurano contro il suo personaggio, mentre suggerisce a più riprese che molte delle cose a cui assistiamo non siano accadute nel modo in cui vengono presentate allo spettatore. Non si è mai veramente sicuri se il groviglio infernale nel quale si ritrova Grassadonia sia il risultato di un sistema indifferente o della sua percezione alterata. Il risultato è un corto circuito che impedisce al film di eguagliare la portata dostoevskiana e kafkiana a cui lo Cascio chiaramente ambiva.

Eppure, La città ideale non può considerarsi un esperimento totalmente fallito. Si può dire, al contrario, che faccia esattamente quello che dovrebbe fare in quanto esperimento artistico: avanzare una proposta formale che permetta di pensare al di là di linguaggi e categorie acquisite. Né si tratta di un semplice divertissement al livello della confezione: lo Cascio si serve di uno stile rarefatto, ma lavora a partire dalla realtà. È encomiabile, e segno di grande intelligenza, che abbia reso il regionalismo italiano una componente fondamentale del film (le origini siciliane rinnegate del protagonista). Rispetto a un panorama produttivo nazionale dove i caratteri regionali sono neutralizzati, egemonizzati dalla capitale o più semplicemente stereotipati, lo Cascio offre un esempio compiuto di come ci si possa servire di un luogo (in questo caso, Siena) e del suo patrimonio culturale e umano per conferire unicità a un’opera cinematografica.

Ad oggi, lo Cascio non ha ritentato l’avventura della regia cinematografica e, nonostante la selezione a Venezia, il suo primo tentativo non fu accolto entusiasticamente. Merita di essere recuperato in quanto visione singolare di cinema e di genere, la cui maggiore “colpa” è la stessa del suo protagonista: quella di essere fedele a sé stessa.

Precedente L’asso nella manica (Ace in the hole) (1951) di Billy Wilder Successivo Jak pokochałam gangstera (2022) di Maciej Kawulski