Un leone bianco salverà il cinema?

Confesso il mio imbarazzo nell’andare al cinema. Dopo anni di full immersion nel cinema polacco (la dipendenza, lo dichiaro, continua ancora); di continue delusioni avute dal cinema italiano, pieno oggi di tematiche extracomunitarie, preti engaged e professori sessantottini ed essere stato, ieri, distratto e genuflesso verso i potenti di turno; di idiosincrasia verso il cinema americano, affollato da supereroi e saghe interminabili.

Ecco dunque apparire Mia et le lion blanc di Gilles de Maistre, prodotto da Jacques Perrin, ingiustamente definito solo un film ecologista e buonista, per ragazzi e famiglie, e inaspettatamente interessante. Innanzitutto per il valore documentaristico, merce rara nel cinema di oggi.

Il film, infatti, ha avuto l’aiuto di Kevin Richardson, uno zoologo sudafricano che ha lavorato con oltre cento leoni negli ultimi venti anni e sulla vita del quale lo stesso De Maistre aveva girato un documentario, intitolato L’uomo che sussurrava ai leoni; è dunque una storia vera, che il regista ebbe modo di conoscere nelle zone in cui il film è ambientato.

De Maistre e Richardson, lavorando insieme in Sud Africa nella “Welgedacht Reserve”, hanno iniziato a filmare il cucciolo di leone bianco (specie rara che nel 2004 contava 300 esemplari) quando era molto giovane e hanno gradualmente costruito un legame tra lui (il leone Thor) e la bambina (Daniah De Villiers), trattando l’animale come un attore reale che a poco a poco si è abituato alle telecamere, ai microfoni e al set. Tre anni di lavoro, tre sessioni full immersion, ogni settimana dalla durata di due o tre ore circa: questo è stato il grado di impegno richiesto affinché si instaurasse tra bambina e leone quella relazione familiare e spontanea che la pellicola ci regala.

Mia e il leone bianco è dunque un film rigorosamente girato dal vivo, con animali veri e con reali interazioni tra essi e gli umani. E’ un valore aggiunto, in un’era dove leoni, elefanti ed altre specie vengono, anche per film live action, completamente ricostruiti e animati in computer grafica. “Abbiamo un vero leone. Non è drogato, non è chiuso in sicurezza come al circo, non ha gli artigli tagliati. E’ completamente libero di fare quello che vuole. – dichiara il regista – Quando non aveva voglia di girare allora non giravamo.

Il regista francese (nipote di René Clément) ha già girato numerosi documentari tra cui Il primo respiro (2007) con Isabella Ferrari, che affronta il tema del parto, ed una serie di lavori realizzati per France Télévision (Les petits princes) sul rapporto tra bambini e animali selvatici.

Il personaggio di Mia è quello di una bambina ribelle, musona e che soffre il trasferimento della sua famiglia da Londra in Sudafrica, dove hanno deciso di riprendere l’attività di un allevamento di leoni. Cerca l’amore tramite Skype dai suoi coetanei, ma non è corrisposta.

La storia d’amore vero tra Mia e il leone Charlie è scandita da scritte in sovraimpressione (4 mesi, 8 mesi, 1 anno, poi 2 anni) che ci spiegano l’età di Charlie, e sono importanti per farci capire che quella creatura sarà sempre meno un tenero puppy, o un gatto maldestro cresciuto, e sempre più un maestoso leone. Mia accetta sempre meno le limitazioni che le sono intimate per la sua sicurezza, rifiuta ogni gabbia – reale e simbolica – che viene imposta dalla sua famiglia.

Mia e il leone bianco ci riporta ai film di Jean Jacques Annaud come L’orso e, soprattutto, Due fratelli, che con questo film condivide il tema “felino”. Si avvicina anche a Linklater, con i suoi Boyhood e la trilogia Before, per il fatto di veder crescere gli attori insieme ai protagonisti, man mano che la storia si evolve sullo schermo.

Nel film è presente il ruolo dei video, preminente nella società contemporanea. Molti sono i filmati decisivi nello sviluppo dell’intreccio. Innanzitutto quello sulla crescita del leone bianco. Inoltre anche il video flashback che ci illumina sulla precedente missione in Sudafrica, troncata dall’incidente traumatico per Mick, il fratello di Mia, che rimane in disparte per tutto il film fino ad avere un riscatto nel finale.  Ed ancora il video rivelatore del continuo rapporto tra lei e il leone, nonostante il divieto, e che causerà la momentanea spaccatura di Mia con la sua famiglia e la fuga.

Tutta la parte finale con il viaggio disperato di Mia e il leone verso la riserva naturale di Timbavati (luogo fiabesco con tanto di sciamano) al fine di garantirgli la totale protezione, diventa dunque una sorta di road-movie, genere preminente rispetto al poliziesco – thriller. Alla guida di un camioncino, con una coda di leone che spunta dal finestrino, la bambina parte in missione di salvataggio tra praterie, autostrade e simbolicamente un centro commerciale, ultimo ostacolo verso la libertà.

Naturalmente al centro del film c’è la denuncia alla caccia ai leoni, una pratica incredibilmente legale, che si insinua nella realtà di ogni allevamento di leoni: durante i safari le persone, pagando laute cifre, possono uccidere i grossi felini, allevati con l’unico scopo di essere ammazzati. Un’attività ancora più triste se si pensa che il declino del re della Savana è ormai inarrestabile. Già nel 2011 l’area occupata dalla specie si è ridotta solo all’Africa sub sahariana ed il leone è diventato una specie vulnerabile secondo la IUCN: un declino stimato tra il 30 e il 50 % nei vent’anni precedenti.

Di Marco Chieffa

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