Los colonos (2023) di Felipe Gálvez Haberle

Di Matteo Bonanni

Un Western revisionista? Così dicevano molti – leggo – a Cannes post visione, e così dicono molti, oggi, all’uscita, limitatissima, del film in Italia.

Los Colonos richiama certamente gli echi Western, anche se io prediligo personalmente quella corrente storica che data il Western tra il 1860 e il 1890 e in America. Fatta questa precisazione vezzosa e forse inutile ed affermando che gli echi ci sono, con tanto di messicano abituato ad ammazzare gli indiani (ora gli Indios) venuto in Cile, il film è un mix di generi ed umori e parte, tragicamente, dalla Storia con la s maiuscola.

La trama in breve:

Cile, 1901. Un tenente inglese e un mercenario americano vengono assoldati da un allevatore nella Terra del Fuoco. A loro si unisce Segundo, meticcio cileno che diventa complice inconsapevole di una violenta caccia all’uomo in cui le prede sono gli indigeni della zona.

Ci ritroviamo subito immersi in un contesto brutale. Un uomo perde un braccio e viene ammazzato; poco dopo inizia questa violentissima missione alla ricerca degli Indios da sterminare, per poter più liberamente sfruttare la terra di questa famiglia, ancora oggi in possesso del territorio, che praticamente è lo “stato” dove lo stato non c’è. Nel finale lo Stato/Nazione arriverà ma ne parliamo più in là.

Un tenente (che tenente non è) venuto dall’Inghilterra, un killer messicano, e un meticcio (mezzo Indios e mezzo cileno): questi sono i tre personaggi che ci guideranno in una vallata geometrica, in un mondo tra nebbia, sangue, militari annoiati e sterminio di un popolo, passando anche per un pezzetto di Argentina.

Nel mix di generi c’è un momento in cui il “meticcio” ha una sorta di visione ancestrale, di un uomo/demone (?) di quel luogo; poco dopo ci ritroviamo in mezzo alla nebbia, con due dei tre protagonisti che uccidono selvaggiamente famiglie di Indios e stuprano una donna a turno. E’ uno scenario horror, e forse una parte di me avrebbe voluto vedere ancora, e oltre, di un massacro reiterato e che si ri-allaccia a tanti, troppi massacri che ancora oggi vengono perpetrati dai colonizzatori.

Il film, con questo trio, però deve andare avanti e il momento horror scompare. Usciamo anche dal Western, c’è l’oceano e c’è un incontro quasi “Conradiano” con un ex colonello inglese che vive alla fine del mondo e ha metodi alla “Colonnello Kurtz”, senza “idee ed ideologie” però. Entrerà poi in corsa anche una donna, all’uscita di scena di uno dei protagonisti, e l’attenzione si sposterà a qualche anno dopo.

Nel finale il film sancisce l’ambiguità della nuova Nazione nascente, che invece di (sappiamo oggi) indagare e punire, o comunque verificare l’eccidio degli Indios, fa affari e sfrutta il potere di quelle grandi famiglie che, in nome del loro denaro e dello sfruttamento, hanno ucciso migliaia e migliaia di autoctoni.

Alla fine, il politico venuto da Santiago, dai modi eleganti, forbito e furbo, chiede a Rosa (la donna che si era unita al gruppetto qualche anno prima e che ora vive col meticcio) se vuole far parte della Nazione; e per farlo, deve farsi immortalare, come un animale allo zoo o come uno scherzo della natura, a bere il thè e in abiti eleganti.

Il western riecheggia anche nelle fantastiche musiche di Harry Allouche che danno forza a questo esordio così importante ed eccentrico. E’ la forza del genere, americano, che aiuta a ri-leggere o ad inquadrare fatti drammatici e brutali.

Con questo film Galvez si mette già in una lista speciale, entra di diritto tra i registi da tenere d’occhio, con quel finale fa anche presagire che potrà/vorrà (?) dire molto altro sulla sua nazione, prendendo anche spunto dal regista per eccellenza della contemporaneità cilena (Larrain) che viene richiamato anche dall’utilizzo dal suo attore feticcio, il sempre bravissimo, in un ruolo spregevole (al solito) Castro.

Dramma sociale, ma senza retorica, western, horror, in sostanza un film fatto di tanti momenti, alcuni quasi onirici, diretto in maniera pregevole: si pensi all’uso dello zoom che riesce a mostrare l’incredibile vastità dei luoghi filmati, che dà l’idea di un contesto e scuote la camera fissa. Un film che riesce anche ad essere sintetico, una qualità ormai rarissima, interpretato benissimo e fotografato ancora meglio.

Usando i colori del Cile più estremo, con le scene in notturna, “Los Colonos” riesce a raccontare qualcosa di così drammaticamente brutale e feroce, senza perdere di vista la narrazione e senza mai essere mera retorica, rimanendo cioè Cinema; e quel finale non può che riecheggiare nella mente dello spettatore, insieme alle musiche e a certe scene visivamente eccezionali.

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