Powidoki (2016) di Andrzej Wajda

Il film Powidoki, l’ultimo di Andrzej Wajda, senza preamboli, con uno stile asciutto e quasi documentaristico vuole presentarci gli ultimi quattro anni di vita, dal 1948 al 1952, del pittore e professore polacco Władysław Strzemiński, in pieno processo di sovietizzazione della Polonia. Dopo un rilievo critico avanzato da Strzemiński (interpretato dal carismatico ed importante attore Bogusław Linda) contro la necessità di indirizzare le iniziative culturali verso l’asettico e “politico” realismo socialista, si assiste alla sua condanna, con una escalation che ha come obiettivo la cancellazione fisica ed ideologica della sua persona e di tutti coloro che hanno avuto la ventura di accompagnarlo. Si comincia dalla distruzione della Sala neoplastica del Museo d’Arte di Łódź di cui lui stesso è stato fondatore, continuando con il ritiro della tessera del sindacato degli artisti, arrivando al rifiuto di vendergli gli oli e le tempere, azzardando la negazione del cibo non riconoscendolo più come invalido di guerra e finendo con l’incarcerare i suoi allievi come dissidenti.

Wajda, in una narrazione senza sbalzi temporali, non vuole cedere ad alcun legame tra se stesso e il personaggio, anche se dopo un mese dalla prima del film, avvenuta il 10 settembre 2016, il suo cuore cederà e lascerà il cinema polacco orfano della sua guida. Eppure Strzemiński capisce che è giusto allontanare dalla sua casa tutti quelli che si interessano a lui, compresa Hania (interpretata da Zofia Wichłacz), la sua allieva più devota ed innamorata di lui.

Il suo è un gesto di difesa ed il suo creatore, Wajda, allo stesso modo sembra voglia allontanare tutti i suoi estimatori dalla vicenda personale di cineasta. Che è invece proprio quello che affolla la mente di chi come me ha visto e vissuto la sua parabola artistica. Soprattutto quando, tra il 1959 e il 1968, ha dovuto girare adattamenti cinematografici di grandi opere polacche per l’impossibilità di parlare del presente. O quando ha fatto del cinema polacco una creazione di artigianato artistico e mai un prodotto industriale, ed ha pensato ai gruppi cinematografici polacchi come delle botteghe artigiane dalla componente locale e civile, che cioè parlavano della società e dei valori della vita collettiva, sostituendosi alle istituzioni politiche. In particolare la sua Zespół Filmowy „X” di cui è stato direttore dal 1972, ovvero un gruppo artistico-produttivo basato sulla responsabilità di cineasti e artisti, sottratto faticosamente al controllo degli organi politici; e soprattutto il suo ruolo ricoperto dal 1979 di presidente dell’associazione dei cineasti polacchi. Il pensiero va anche allo stato d’assedio che ha subito la Polonia e alla conseguente dimissione di Wajda nel 1983 da entrambe le cariche e alla sua vita da emigrato in Francia e Italia, durante la quale il gruppo „X” è stato sciolto dal governo, riconoscendogli di fatto il ruolo di punto di riferimento per l’opposizione. Per finire con il ritorno di Wajda in Polonia nel 1986, combattendo affianco al popolo polacco e alla sua cultura, alimentando così la “polonità”.

Affidare il testamento di Wajda a Strzemiński significa non certo farsi rappresentare da un uomo di marmo e tantomeno di ferro. E’ un grande pittore senza un braccio e una gamba, rimanendo ignota nel film la causa, come se avesse simbolicamente nel suo corpo le “stimmati” dei duri colpi inferti dalla storia alla Polonia, alla stessa stregua della paresi facciale di Lena nel film Germania pallida madre (1980) di Helma Sanders-Brahms.

La poliedricità artistica di Wajda e i suoi innumerevoli interessi sono incarnati benissimo dalla teoria della visione espressa da Strzemiński in qualità di professore dell’Accademia di belle arti di Łódź. Il concetto di immagine residua (in polacco appunto powidoki, da qui il motivo per cui il titolo italiano L’immagine negata è l’ennesimo caso di scelta infelice), ovvero i colori riflessi nell’occhio quando smettiamo di guardare un determinato oggetto che risultano opposti rispetto alla visione, è un bellissimo messaggio che potrebbe essere sintetico di un modo di concepire tout court l’arte. É dunque un monito a valorizzare l’unicità della fruizione dell’opera d’arte anche cinematografica, a sottolineare ovvero che noi vediamo solo quello di cui siamo consapevoli. Non a caso Strzemiński, alle domande insinuanti e subdole dei burocrati sovietici che chiedevano da quale parte lui si poneva, risponde sfrontatamente di essere dalla propria parte, che è la stessa del suo creatore Wajda e dei suoi tanti ammiratori.

Cosa rimane della parentesi sovietica della Polonia? Wajda sembra parlarci della minaccia quando, nello studio del pittore Strzemiński, la tela vuota si colora del rosso che proviene dallo stendardo del volto di Stalin, proiettato dalla piazza, quasi come il cartellone di Stalin che appare in Hands up (1981) di Skolimowski. Sembra anche dirci che il rosso della bandiera serva solo a coprire ed asciugare il sangue che il pittore perde dalla bocca, primo segnale della letale tubercolosi.

Cosa rimane di Władysław Strzemiński? Wajda ci porta sulle lenzuola di un letto d’ospedale viste attraverso gli occhi della figlia Nika, che ha imparato a fare a meno dell’affetto della madre (la scultrice Katarzyna Kobro, ex moglie di Strzemiński), a dividere l’affetto del padre con l’allieva Hania, a scegliere di vivere in un orfanotrofio, ad illudere il padre di passarsela bene con stivali nuovi presi in prestito. Quelle lenzuola sono state il sudario che ha visto la morte di un grande artista, su quelle sono rimaste impresse la memoria e l’immagine residua di chi ha resistito alle ingiustizie senza cedere di un millimetro.

Di Marco Chieffa

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