Stella solitaria (Lone star) (1996) di John Sayles

“Forget the Alamo”!

Così dice l’amore della vita, appena ritrovato, al protagonista del film, chiudendo la pellicola.

Forget the Alamo vuol dire tantissime cose.  Vuol dire innanzitutto lasciar stare tutte le schifezze fatte dai padri e le madri ai protagonisti; vuol dire anche tagliare i ponti con la falsificazione della storia; vuol dire persino andare oltre la narrazione dei “vincitori”

Stella Solitaria (Lone Star) (1996) di John Sayles

La trama in breve:

Due sergenti dell’esercito americano di stanza nella base militare di Frontera (una città sul confine del Messico), mentre non sono in servizio, in un poligono di tiro abbandonato trovano un cadavere e un distintivo da sceriffo. Le indagini vengono condotte da Sam Deeds, figlio del defunto leggendario uomo di legge Buddy. Il morto è Charlie Wade, sceriffo corrotto, costretto a lasciare la città dove esercitava il padre di Sam.

Sayles è il paladino del cinema, narrativo, indipendente americano degli ’80 e ‘ 90. E’ un regista indipendente ma intelligentissimo, capace di non tralasciare mai l’aspetto narrativo, anche di presa sul pubblico, ma anche di sviluppare una poetica che va a toccare tantissimi temi: integrazione, razzismo, storia, sviluppo economico di una nazione, vicende personali e vari generi cinematografici.

Abbiamo scritto poco fa di Cop Land, un neo-Western, appunto, e Lone Star di certo appartiene a questo sottogenere, anzi è uno dei suoi massimi livelli almeno negli anni’90.

Siamo in Texas, e proprio per questo la Battaglia di Alamo è così importante; quella controbattuta finale va a toccare il cuore di un discorso ancora oggi fondamentale per il Texas (la frase originale è “Remember the Alamo“) e le sue radici.

Il protagonista è il figlio di uno sceriffo divenuto leggenda, e il film da qui sviluppa varie sottotrame che parlano di eredità e di rapporti familiari spesso malsani. Tutti i protagonisti hanno difficoltà con i loro genitori, vissuti per altro in un’epoca molto diversa dalla loro, ma non c’è mai nostalgia, e questo è propriamente un tratto molto distante dai canoni del genere, sia il Western che il suo figlioccio neo-western

Nel dipanare la vicenda investigativa, nel ricordare i territori del west-ern, Sayles ci parla dell’America moderna, degli odi mai sopiti, delle intolleranze e degli usi che nonostante tutto non sono cambiati; nel Texas, bianchi, afroamericani e messicani convivono a malapena e l’unico modo per farlo sembra quello di difendersi formando dei piccoli branchi.

Nelle oltre due ore il film ci svela a poco a poco tutti i retroscena della “leggenda” dello sceriffo, del suo rapporto con gli altri anziani protagonisti; nel mentre il presente ci mostra, appunto, le differenze mai colmate nella comunità, i problemi dell’oggi, le vicissitudini dei protagonisti.

C’è, spesso in Sayles, un eco altamaniano, questo ricorso al gruppo, alle tante voci per descrivere un mondo, un luogo o una storia.

Il western è incarnato dai luoghi, dalla stellina che ancora oggi porta lo sceriffo della contea, dalla faccia, ormai rugosa di Kristofferson, legenda del genere e del country; ma è un western che si mischia con il poliziesco o meglio si disperde in esso, facendo poi prendere il sopravvento alle sottotrame e ad altri umori.

Le vicende si intersecano eppure sono coerenti, il viaggio tra le città del Texas, con escursioni in Messico del protagonista, impreziosisce la storia con dettagli sempre più veritieri. Sayles mantiene, in un film “grande” per lui, quel distacco tipico del cinema indipendente; non c’è mai il ricorso a scene madri, a sentimenti finti.

I personaggi sono segnati dalle scelte dei loro genitori e dalle loro, il contesto ha influenzato la vita di tutti e con lui anche la propria epoca. Sorge spontanea una domanda – affermazione: in questa ricerca della verità “fordiana” la leggenda resisterà! (?)

Oltre alla fotografia che dà forza all’aria malinconica, soprattutto del protagonista, e che immortala paesaggi fantastici, il cast è perfetto come del resto la colonna sonora. Sayles rilegge il genere a modo suo, lo incorpora in altre vesti e lo personalizza al fine di parlare delle persone, della “Storia”; o meglio delle varie storie del confine, dei rapporti tra comunità e del rapporto con la “verità/realtà”.

Cooper, ovvero il suo attore feticcio, offre una prova, in sottrazione come sempre, da ricordare, come del resto Krstofferson che in quei pochi minuti, da cattivo stranamente per lui, è efficacissimo.

Lone star è una perla che riesce ad unire il cinema indipendente, non indie (!!!), al cinema classico, in un cortocircuito che riesce a prendere, forse, il meglio di entrambi. La storia è perfetta, tutto funziona a meraviglia e con l’onestà che è tipica del regista, la denuncia di un’America nata, come i protagonisti, nel sangue, nella menzogna e che ancora oggi si fonda e procede sfruttando le minoranze, non (de-)finisce il resto del racconto; il racconto umano riesce a procedere di pari passo e con la sua legittimità.

La rilettura del genere fa lo stesso e Sayles dona anche allo spettatore una serie di scene da ricordare.

Infine, come detto, quell’eccezionale battuta finale, fatta da una donna che vuole solo eliminare il male subito e le menzogne vissute. Ha l’efficacia di una battuta che prende di petto tutto un modo di vedere le cose, la vita e la storia; insomma un macigno su quel mondo retrogrado ed ipocrita che il film ha così bene descritto.

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