Oro Verde-Pájaros de verano (2019) di Cristina Gallego e Ciro Guerra

In questo esordio alla regia della (strana) coppia di registi, lei sceneggiatrice, lui già attivo con tre film, si intravede un talento che brillerà a lungo.  Oro verde è stato presentato l’anno scorso al Festival di Cannes ed è stato nella cinquina finalista dei candidati all’Oscar come miglior film straniero.

La trama in breve

La storia ricopre un arco temporale che va dal 1968 fino 1980, siamo in Colombia. Rapayet e la sua famiglia indigena diventano distributori di marijuana, vista la costante richiesta da parte degli occidentali, scoprono così cosa voglia dire avere a che fare con potere, soldi e violenza.

Il film riesce ad essere un mix tra documentario antropologico e gangster movie; realizza la parte più spettacolare senza distogliere l’attenzione dal suo viaggio nei mutamenti di un paese. Questa guerra tra famiglie-bande, tra uomini e donne, è una lunga corsa verso il baratro. Il cambiamento di cui ci parla il film ha portato un popolo che seguiva le sue tradizioni arcaiche fatte di scambi di pecore, onore, legami di sangue e terreni, ad essere un paese mercificato e mercificante, dominato dalla violenza.

Il film riesce ad essere con grande naturalezza sia un film-documento sul cambiamento di una nazione, sia un gangster movie implacabile e visivamente eccellente. La regia, fatta di piani sequenza, campi lunghi e di movimenti affascinanti, ci mostra questa natura selvatica, indomita e illumina poi il mutamento della tribù Wayuu da pastori-mercanti a narcotrafficanti.

Nel film c’è un passaggio che segna l’inizio della fine: l’incontro con i “gringos” in cerca di erba. Il protagonista (Rapayet) ha un solo obbiettivo prendere moglie e per questo è disposto a tutto; per questo uccide il suo amico fraterno e diventa il boss della zona. Questo passaggio che ho citato è il vero turning point del film, da quel momento non c’è più ritorno, l’avidità e la ferocia, figlie del capitalismo di stampo americano, si impadroniscono dei protagonisti che vivono così in una spirale di odio e vendetta.

Il film è diviso in cinque canti, che segnano le tappe del cambiamento di queste grandi famiglie: una governata dalla madre-padrona e l’altra da un padre padrone. In questo senso è intrigante e malefico il ruolo doppio e duplice di Ursula (una rocciosa e indomabile Carmiña Martínez), che è la madre-generatrice della violenza finale; è lei che stimola Rapayet a fare sempre di più per la sua famiglia e soprattutto a difenderla, finendo così in guerra. I principi rispettati fino a quel momento, tra tutti anche quello della “parola”, improvvisamente perdono di valore e allora tutti possono morire in nome della vendetta, del sangue e soprattutto dei soldi.

Colombia e gangster movie, ci sembra tutto così consueto visto che parliamo del paese che poi vivrà sotto il dominio spietato del cartello di Pablo Escobar; il film ci racconta cosa è accaduto prima e come sia cambiato il tessuto sociale-umano della Colombia. La Colombia è una nazione dalla natura incredibilmente bella; il ruolo della natura con le sue stagioni, tempeste, animali, ma anche e soprattutto il lato onirico, rappresentano anticipano e mostrano quello che accadrà nel film. La madre (Ursula) è colei che interpreta i sogni in cui sono proprio gli animali ad essere portatori di messaggi e cambiamenti; la natura, il misticismo e le antiche tradizioni non potranno molto contro la violenza devastante e devastatrice del neonato capitalismo.

Quando nei due canti finali assistiamo alla caduta di questo impero della droga, vediamo come tutti i personaggi siano ormai lontani parenti di quello che erano solo dieci anni prima, se prima si scambiavano collane e pecore, ora si regalano armi, se prima seguivano i riti tradizionali, ora sono “borghesi” stanchi che giocano con le pistole ai bordi di una piscina.

Un personaggio riesce ad incarnare in sé e ad ergersi ad emblema di questo circolo vizioso, innescato dalla nascita di questo cartello ante litteram, il figlio di Ursula: Leonidas prima bambino che apprende dai grandi come ci si comporta da boss, poi giovane-adulto sbruffone, arrogante, sempre in preda all’ira e all’alcol. Sintesi paradigmatica del personaggio è la scena disarmante in cui fa mangiare la cacca, ad una sua guardia del corpo, pagandola.

Qualcuno ha parlato di un Padrino in salsa colombiana, personalmente vedo più adatto un paragone con Scarface, della coppia De Palma-Stone, per l’importanza del ruolo economico e l’influenza della brama capitalista che aleggia su tutto il film. Siamo di fronte ad un prodotto che può soddisfare tuti i palati, quelli alla ricerca di uno studio antropologico, sociale e politico e quelli che vogliono le palpitazioni degne dei migliori gangster movie. Tantissime sono le scene piene di vigore e che ti segnano, facendoti riflettere ancora all’uscita dalla sala e i giorni successivi. Il cuore del film è la notevole riflessione sul cambiamento di un popolo e di un paese, che fino a quel momento era riuscito a mantenere i suoi secolari valori saldi e nel giro di pochi anni, anche grazie ad ingerenze esterne, si è trasformato in una sorta di Messico, dove i principi, i valori e il rispetto di regole sacre hanno lasciato il passo alla ricerca del più bieco e sconfinato dominio, in nome del quale qualsiasi atto di violenza può essere compiuto.

Un film eccellente, dal ritmo serrato, in cui abbiamo ancora una volta la dimostrazione che è nel “Genere” che si annida il cinema più politico e allora le pistole che sparano, i fucili, i mitragliatori e soprattutto l’erba sono i simboli di un mondo mercificato in cui nessun valore sociale, storico e culturale può più resistere.

Di Matteo Bonanni

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