In America (2002) di Jim Sheridan

Quale è il modo migliore per descrivere la realtà così complessa di una nazione come gli Stati Uniti d’America, nella sua coesistenza di magia e realtà, famiglia e diversità? Forse attraverso l’obiettivo di una telecamera, manovrata da una matura ragazzina irlandese, durante gli anni Ottanta (prima dell’11 settembre) nel quartiere di Hell’s Kitchen e con un plot incentrato sulla forza di un “emigrato” africano. È questa la premessa del film In America, diretto nel 2002 da Jim Sheridan.

Il regista irlandese, già autore de Il mio piede sinistro e Nel nome del padre, dedica il film a Frankie Sheridan, suo fratello minore morto all’età di dieci anni. Nella vicenda ambientata appunto nel 1982 a New York, una famiglia irlandese, Johnny (Paddy Considine) e Sarah (Samantha Morton) Sullivan con le figlie Christy e Ariel (ispirate alle reali figlie del regista, che lo aiutano anche nella sceneggiatura), si trasferiscono negli Stati Uniti con un visto turistico attraverso il Canada, senza un soldo in tasca e per ricostruire una nuova vita, dopo la dolorosa perdita del figlio causata da un tumore al cervello.

I luoghi delle riprese a Manhattan includono Times Square, il Lincoln tunnel ma soprattutto il quartiere di Hell’s Kitchen, tradizionalmente popolato dalla classe operaia di origine irlandese, mista a balordi, tossicodipendenti, travestiti ed artisti. Simbolicamente dagli anni Novanta, questo quartiere delimitato dalla 34° e 59° strada, l’8° Avenue e il fiume Hudson, subirà il fenomeno della gentrificazione, divenendo la dimora di moltissimi attori, grazie anche alla vicinanza con i teatri di Broadway e l’Actors Studio.

Sulle note di “Do you believe in magic” che suona alla radio e con la bandiera americana che si affaccia tremolante sulla telecamera con schermino laterale della figlia maggiore Christie, le aspettative immaginifiche di questa famiglia si scontrano con un inferno metropolitano, reso vivido dalla fotografia di Declan Quinn; a partire dalla realtà degradata dell’appartamento, acquistato dalla vendita dell’automobile, un posto buio e spaventoso, abitato da colombi, in un caseggiato chiamato “the Drug House”. Anche il cattolico Johnny non riesce a sfondare come attore e nemmeno a saldare il rapporto con la famiglia, per l’incapacità di provare emozioni vere. A nulla serve il suo nuovo lavoro come tassista, per pagare le tasse scolastiche delle figlie, o il lavoro in una gelateria della moglie. Proprio ad Halloween, quando le ragazze bussano alla porta di un gigantesco nero chiamato “the screamer”, si avvera il miracolo. Mateo (Djimon Hounsou), un’artista afroamericano malato di AIDS, triste e violento, si rivela essere un magico “extraterrestre” che cambierà la sua vita e quella della famiglia irlandese.

Il cambiamento arriva in un preciso momento, quando Johnny e Mateo si affrontano, esternando un sospetto che fino a quel momento era rimasto sotto la superficie. Da allora la situazione cambia velocemente e c’è un nuovo modo di vedere le cose, un’intuizione improvvisa che illumina quello che si era visto precedentemente.

La qualità di In America sta nel parlare degli Stati Uniti non usando la solita storia di immigrati di fine secolo, ma nel dipingere una storia moderna con nuovi problemi, dove razzismo e tossicodipendenza si mischiano all’umiliazione della povertà. Durante l’estate calda ed insopportabile di New York, Johnny, novello Don Chisciotte, trascina un vecchio condizionatore attraverso una strada trafficata, portandolo per molte rampe di scale nell’appartamento solo per provocare un cortocircuito che oscura tutto l’edificio. Vediamo un padre che, per cercare di provvedere alla propria famiglia, prova vergogna per non riuscire nell’intento. La stessa molla che spinge a fare cose stupide, come nella scena del luna park dove Johnny rischia tutti i suoi risparmi per lanciare palle contro un bersaglio, nel tentativo di vincere un pupazzo di E.T. da mostrare alle figlie come un eroe. Il riscatto è il tema che percorre tutto il film, e che fa muovere tutti i personaggi. Rivincita a livello finanziario, ma soprattutto esistenziale. Il vuoto che si sente in una città “straniera” è più percepibile quando la piccola Ariel lamenta che Manhattan sia il quartiere abitato solo dai grandi (man-hattan), dove non c’è nessuno con cui giocare e raccontare i propri segreti. O quando la mamma Sarah rende il triste appartamento un posto magico che fa percepire a Christy di vivere “su un altro pianeta”.

Jim Sheridan riesce a raccontare il dilemma tipico di tutti gli emigranti, ovvero l’equilibrio tra distinzione ed integrazione anche attraverso l’uso simbolico del cibo. Per il nuovo amico nero (in irlandese “uomo blu”), la famiglia di emigranti irlandesi prepara il colcannon, un piatto di cavolo e patate servito con pancetta. Al centro della tematica c’è naturalmente Mateo, l’altro che sulla propria porta ha il segno del “keep out”, ma che viene “davvero capito” dai cordiali irlandesi, che secondo i principi del cristianesimo danno conforto ad uno sconosciuto.

Il rovescio della medaglia dell’integrazione è il pericolo della perdita d’identità. Quando le figlie vincono il premio scolastico per il miglior costume “fatto in casa”, si lamentano perché vogliono essere come gli altri bambini che hanno dei costumi acquistati; quando la madre Sarah reagisce alla consulenza medica sulla sua fertilità, si difende dichiarando: “che cosa sanno su di noi?”.

La spina dorsale di In America poggia sui tre desideri della piccola Ariel. Garantire un passaggio sicuro attraverso la dogana, per arrivare alla terra della speranza e dell’opportunità e lasciarsi alle spalle il “vecchio mondo”. Vincere la bambola di E.T., simbolo del bisogno di avere fede nel mito americano e motivo spielbergiano ricorrente in tutto il film. Aiutare la mamma a sopravvivere alla nuova gravidanza, sacrificandosi per non contaminare il nascituro, come nel passato è accaduto al fratellino scomparso.

La figura di Mateo supera gli stereotipi cinematografici del maschio nero che oscillavano tra la bestia selvaggia e incontrollabile e tra il servo santo ed innocente. Rispetto ai valori sicuri e tradizionali della famiglia irlandese, la sua alterità soprannaturale ed esotica può essere letta come un significante effetto del capitalismo americano; la sua capacità di guida per la famiglia verso il benessere emotivo lo avvicina alla figura ingenua e popolare dello “zio”, in sintonia con il mondo soprannaturale e la fiducia collettiva nella magia. Proprio per questo il simbolo di questo personaggio e di tutto il film rimane quella che poi è la scena più famosa del cinema a stelle e strisce e tout court dell’America: un bambino che pedala con la luna piena sullo sfondo, mentre nel cestino della bici c’è il suo amico E.T.

 

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