Life during Wartime (2009) di Todd Solondz

Alla 66ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica nel 2009, il premio Osella per la migliore sceneggiatura è stato assegnato al film Life during Wartime dello statunitense Todd Solondz. Mai come in quel caso, la giuria presieduta da Ang Lee diede un giusto riconoscimento ad una commedia così perfettamente congegnata.

La “guerra” del titolo apparentemente non centra nulla con il plot (difatti in Italia apparve come Perdona e dimentica); in realtà risulta centrale come sentimento di base che pervade la vita di molti americani post 11 settembre. Inoltre è una parafrasi, in qualità di elemento fantasmatico, della guerra che ognuno combatte con se stesso e con i propri sentimenti.

In maniera emblematica molti personaggi di Life during Wartime sono una variazione dei personaggi di Happiness, film del 1998 sempre di Solondz, nel senso che ritornano interpretati da attori diversi, e per giunta invecchiati nella finzione in maniera diversa, senza alcun dato cronologico comune. A complicare si aggiunga il fatto che alcuni personaggi provengono dal film Welcome to the Dollhouse (1996) di Solondz o appositamente inventati. È come se si volesse evitare la moda a volte stucchevole dei sequel, per ribadire in maniera più incisiva l’elemento centrale del film, ovvero il perdono e la capacità di dimenticare. In questo senso Life during Wartime è indipendente dalla visione del capitolo precedente ma il passato risulta talmente potente da dominare il tempo presente e allungare la sua lunga ombra persino sul futuro. Non a caso Forgiveness pare sia il primo titolo del film, in assonanza col precedente Happiness, sottolineando come i fantasmi del passato possano spesso presentare un conto salatissimo da pagare. Lo stesso bellissimo incipit del ristorante non solo  ricalca quello di Happiness, ma compare un portacenere con un nome inciso, riproponendone la consegna, il recupero e l’acquisto dello stesso portacenere del film precedente, raro caso di un passato che ritorna letteralmente.

Todd Solondz non avverte alcuna necessità di garantire una riconoscibilità dei suoi personaggi in relazione ai temi affrontati, tanto più in quanto il regista risulta per convinzione riluttante nei confronti del cinema “a soggetto”. La sua visione del mondo è quella di un palindromo (parafrasando il suo Palindromes del 2004), ovvero di un gioco che rimane immutabile qualunque sia la prospettiva o l’approccio dal quale si decide di guardare. Il risultato narrativo desolante è che nessun personaggio può cambiare o migliorare perché ognuno non può essere che ciò che è.

In una Florida, i cui abitanti non potrebbero fare a meno dell’aria condizionata, del centro commerciale o di un parcheggio sicuro, vive la famiglia Jordan, i cui componenti sono tormentati da fantasmi del passato e da scioccanti rivelazioni che ne hanno frantumato l’universo personale. Joy Jordan (Shirley Henderson) è perseguitata dalle visioni di Andy, un ex corteggiatore che si è suicidato per lei, e capisce che il marito Allen Mellencamp (Michael Kenneth Williams), ex vicino di casa di una sua sorella, non è ancora guarito dall’impulso di fare telefonate oscene. Per questi motivi si rifugia dalla madre Mona, che a sua volta non riesce a liberarsi dall’amarezza che prova nei confronti degli uomini. Joy cerca conforto e consiglio anche nelle sue due sorelle, ovvero Trish (Allison Jenney), che cerca una nuova vita dopo aver scoperto l’inclinazione pedofila di suo marito Bill e sembra trovarla nel divorziato Harvey con cui spera di trovare una “normalità”; e Helen, che si sente vittima della famiglia e del successo hollywoodiano. Intorno a loro, ruotano molti altri personaggi che compongono l’universo di Life during Wartime, pieno di individui prigionieri della vita e dell’amore: ovvero Mark, il figlio di Harvey; la spietata e fredda Jacqueline (una splendida Charlotte Rampling), che gioca a nascondino con i suoi fantasmi pagandosi l’amore di Bill appena uscito dal carcere; Timmy, figlio di Trish, nell’imminenza del suo discorso del Bar Mitzvak, rito ebraico che segna l’uscita dall’infanzia e l’ingresso nell’età adulta, momento dunque assai delicato per fare i conti con il passato di un padre pedofilo ed assimilare i consigli della madre per difendersi.

Solondz si affida alla fotografia di Edward Lachman che ritrae una cittadina della Florida secondo un registro neoclassico, con immagini ricche e pastose di interni ed esterni di villette algide e tipicamente borghesi, immerse nel comfort e nel conformismo della comunità, al cui interno si consuma un dolore indicibile. Lo stile è simile a Far from Heaven di Todd Haynes che vede lo stesso Lachman alla direzione fotografica; non a caso nella camera di un college si vede la locandina di I’m not there, film di cui Lachman è stato operatore.

Il regista statunitense costruisce l’immagine con uno splendore molto efficace, grazie al fatto che Life during Wartime è girato in digitale, in alta definizione con RED camera.

La grandezza del film è soprattutto data dalla sceneggiatura, scritta dallo stesso Solondz. Il distacco con cui sono ritratti i personaggi mediocri, perversi e sofferenti si anima a tratti di momenti lirici, densi di commozione, che rendono il film una commedia crudele e romantica allo stesso tempo. Le molteplici brutali e scorrette storie che si dipanano lusingano lo spettatore, nell’apparente superiorità di ridere di personaggi solitari, che si tormentano in un equilibrio precario, buffo e tragico insieme. Ben presto lo stesso spettatore scopre amaramente che si sta ridendo di noi stessi, della nostra esistenza perennemente in guerra, anche dopo un rito di iniziazione che si sperava vanamente salvifico. Il nemico è quello invisibile del terrorismo ma anche quello osceno del nostro lato peggiore. La battaglia conduce ad un dolore che potrebbe soffocarci, farci dialogare con i morti oppure stimolarci per affrontare i problemi nella ricerca della normalità, innaffiando il tulipano rosso dell’amore e quello bianco del perdono.

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