The Terrorizers (1986) di Edward Yang

Di Matteo Bonanni

Terzo film del regista di Taiwan. Cambiando forma ad ogni film, il maestro Yang continua la sua dissertazione “antoniana” sulla Taiwan degli anni ’80.

La trama in breve:

Le vite di tre coppie a Taipei si intersecano continuamente nell’arco di diverse settimane.

Fin dai primi fotogrammi del primo, grandioso, film di Yang, il regista inizia a mostrarci un Nazione in pieno cambiamento, facendolo attraverso le storie di coppie, di famiglie: le vicende personali che si intrecciano con la costruzione o decostruzione di una città e di uno stato (di cose), di un vivere comune.

Il film fin da subito ci confonde, ci immerge in un caos di immagini, con storie  che proseguono parallele, intrecciandosi tra loro. Taiwan è mostrata nella sua violenza, disperazione, sporcizia; uomini morti per le strade, sparatorie, accoltellamenti, tutti rimangono inerti e indifferenti pensando alle loro beghe personali, al salto di carriera da fare, agli amori che finiscono.

Antonioni e il cinema introspettivo sono dietro l’angolo e del resto la Taiwan dell’epoca è diventata occidentale (come ci mostrava tra l’altro in modo egregio “Taipei story”), non poteva che assorbire molti aspetti dell’occidente pur con una storia, cultura e passato molto differenti.

Presi singolarmente possiamo analizzare i protagonisti: una scrittrice in perenne crisi personale e relazionale che vuole un qualcosa che il marito non le può dare, in quanto lui è soltanto interessato a far carriera; un ragazzo di ricca famiglia che girovaga in giro facendo, belle, fotografie, litigando spesso con la fidanzata; infine una ladra/prostituta che vive ai bordi della città.

Un’umanità disperata e disperante seppur così diversa; nei film del regista taiwanese non c’è mai una retorica, un giudizio, ma semmai il voler svelare attraverso le immagini e le azioni le traiettorie di vita dei personaggi.

Nel suo esordio Yang aveva fatto un uso strepitoso del flashback, raccontando tante storie attraverso vari personaggi e facendoci scoprire alcuni passaggi importanti del paese oltre che dei personaggi; nel secondo film, con una storia più semplice, aveva mostrato l’effetto della speculazione edilizia, del rampante capitalismo, della violenza del mercato sui rapporti umani. Qui riprende e coltiva il tema, i personaggi sembrano essere ciechi, incapaci di vedere cosa gli succede attorno e dentro; il ragazzo/fotografo riesce a vedere solo attraverso le fotografie e proprio le fotografie svelano, finalmente, qualcosa anche al marito della scrittrice.

L’arte e la realtà si fondono nel e dentro al film. La scrittrice dice spesso ai “suoi” uomini di non “mischiare la finzione del romanzo con la sua realtà”; Yang riflette anche sull’atto di creare attraverso i personaggi  della scrittrice e del giovane fotografo, riflette in maniera “antoniana” sullo scarto tra realtà e l’arte, sull’impossibilità di cogliere tutto.

In alcuni passaggi del film ci si potrebbe sentire persi, esclusi, incapaci di unire i vari puzzle per la velocità del racconto, per l’unione tipicamente post-moderna che il regista realizza con il montatore (Liao Ching-song); ma con l’incredibile finale tutto è chiaro nella sua profonda oscurità.

Yang è un coetaneo di alcuni suoi personaggi e spesso porta nel suo cinema le sue paure, le sue ossessioni, molti suoi personaggi sembrano avere tratti autobiografici e qui racconta una crisi d’età e di una società (ancora di più accadeva nel precedente film, si pensi al tragico finale) incapace di capire dove sta andando, dove ogni passato valore sembra essere superato con la stessa velocità in cui si abbattono palazzi e si fanno grattaceli.

C’è sicuramente un aspetto nichilista nella visione di alcuni personaggi che comunque rimangono umani, altamente fallibili e fragili; emerge una traccia “crime” ad un certo punto del film che poi esplode nel finale, ma il film è un racconto di uomini e donne e di un mondo in continua trasformazione.

Le scene notturne, il neon, il colore rosso ricorrente, quel tipico “shot dell’ascensore”, con il colore che rimbalza sul personaggio che vi è dentro (in Taipei Story c’era un passaggio simile); la regia che viviseziona gli ambienti e scruta i personaggi, il sogno/mondo parallelo finale che si erge come passaggio più forte del film, con tanto di omicidi degni della migliore action anni ’80.

Prima della sua opera monstre di inizio anni’ 90, con questo film Yang diventa il re del cinema di Taiwan che ha re-inventato insieme all’amico Hou Hsiao-hsien, capace di creare narrazioni complesse, innovative e visionarie e allo stesso tempo raccontare il proprio paese con dei passaggi di pura poesia e di grandissimo dolore.

Le immagini del cinema di Yang hanno una forza che hanno pochi simili nel suo periodo, ti entrano dentro e lì rimangono; e questo finale è grandioso e allo stesso tempo dolente e mortale come quello di “Taipei Story”.

Il suicidio di un uomo che si ritrova dentro al suo (?) vuoto pneumatico, incapace di reagire a grandi delusioni, sembra il paradigma di una società ormai cieca. Del resto il film inizia con una scena di spiazzante violenza: un uomo disteso, probabilmente morto, sull’asfalto, la città che si risveglia, una sparatoria, arriva la polizia. È una scena che mi fa pensare d’istinto al finale di “Collateral”, al killer morto nella metropolitana, alla desolazione, ad un’umanità che non è più in grado di vedere il prossimo, il resto, altro da sé.

Il cinema, quello grande, il cinema al suo massimo livello!

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