Bronx 41º distretto di polizia (Fort Apache, The Bronx) (1981) di Daniel Petrie

 

È effettivamente difficile vedere Paul Newman nei panni di un poliziotto di pattuglia; lo possiamo invece ammirare in questo anomalo “poliziesco” di inizio anni Ottanta.

Newman veniva da anni di film coraggiosi, poco riusciti e di poco successo. Nel biennio 81-82 invece regalerà almeno due prove memorabili; una è quella di cui parleremo ora, e l’altra è il magnifico “Il Verdetto” di Lumet,  autore che risulta centrale anche nella lettura di questo film.

 

La trama in breve:

L’agente anziano Murphy lavora al distretto del Bronx, caratterizzato da un alto tasso di criminalità. Il nuovo capitano è di maniere forti e i poliziotti si lasciano andare a una violenza spesso ingiustificata. Dopo l’uccisione di un ragazzo innocente da parte di due agenti e la morte per overdose di un’infermiera sua amica, Murphy vorrebbe dare le dimissioni. Poi ci ripensa e decide di denunciare i colleghi omicidi.

 

Daniel Petrie non è un regista famoso o che venga ricordato chissà per quale prova registica; forse il suo film più celebre è “Il gatto e il topo” con un bravo Kirk Douglas. In questo film la sua regia è attenta, seppur non riesca a tenere le redini di una trama che al suo interno apre veramente troppe sotto trame.

“Bronx 41º distretto di polizia” o meglio “Fort Apache, the Bronx”. Ecco, nel titolo americano c’è molto di quello che il film vuole essere, non un western ma un ritratto di New York, precisamene del Bronx, presa d’assedio dalla criminalità.

Nell’intento degli autori non c’era la volontà di tracciare una visione politica del problema, ma bensì l’intenzione di muoversi in questo caos urbano, fatto di tanto malessere. Alla fine il risultato è uno scorcio disarmante, realista ed ancora attuale di un quartiere, di una metropoli, allo stremo e allo sbando, dove la criminalità e la disperazione sono ovunque, la povertà regna e insieme ad essa l’ingiustizia.

Poliziotti “buoni” e poliziotti “cattivi” sono posti a vigilare questo stato di cose, in un’evidente lotta tra poveri, ieri come oggi. Proprio qui entrano in gioco le sottotrame, la vita del nostro “eroe”, ovvero di un Paul Newman che sta invecchiando ma che è ancora capace di interpretazioni memorabili.

Paul è stato uno dei ribelli di Hollywood, l’antieroe per eccellenza, subito dopo Brando, Dean e Clift, ma per tanti motivi lo è stato per più tempo e in maniera più mirata. Questo personaggio, lasciando da parte taluni gigionismi, gli dà l’opportunità di mostrare ancora una volta l’umanità di un personaggio, con una bravura recitativa che pochi come lui hanno avuto ed avranno in futuro.

Tornando all’inizio, fa  certamente effetto vederlo nei ruoli di un poliziotto in prepensionamento. Eppure il suo è un personaggio laconico, crepuscolare, in sostanza un uomo “buono” che crede nell’idea di vigilare e aiutare i civili, che crede alle regole, a differenza del nuovo capitano che gioca con le “proprie” regole, quelle dei forti e dei vigliacchi.

È un uomo un po’ disperato-disperante, che ama il suo lavoro, che ha perso il distintivo d’oro, per alcuni tratti anticipa il personaggio de “Il Verdetto”, un avvocato alcolista disperato, e prosegue una sfilza di anti-eroi perdenti ma in cerca di riscatto che Newman ha interpretato mirabilmente.

Come si diceva, il film accumula troppi temi. Al tema principale della povertà, della disperazione e della violenza delle strade, si aggiunge poi l’ovvio tema del lavoro del poliziotto e dei suoi rischi, il tema della giustizia, del rapporto tra forze dell’ordine e cittadini, del rapporto da “branco” che vige nella polizia come in ogni casta, della violenza nelle e delle strade e infine dell’incontro tra due anime sole e solitarie fino ai tragici eventi finali.

Il difetto principale del film è questo sbrodolare contenuti e perdersi pertanto tra l’uno e l’altro. Solo grazie alla forza delle immagini, alla violenza del ritratto e soprattutto alla straordinaria prova di Newman, il film è ancora oggi godibile e d’impatto.

In quel finale c’è un piccolo riscatto dell’uomo, ormai disperato, che nella disperazione trova la forza per fare la “cosa giusta”. Evidente il rimando e l’omaggio al cinema di Lumet, autore di polizieschi civili come “Serpico” e come il coevo “Il Principe della città”.

Nell’epilogo poi c’è ancora tempo per una corsa, per uno slancio, che ricorda i tanti fervori che hanno animato la carriera di Newman, un attore, regista e autore capace di trasformare volta per volta il ruolo di certi “eroi” del cinema, toccando tutti i generi, dal western al dramma borghese, passando per il film carcerario.

La forza che aveva in gioventù qui c’è ancora in quegli occhi così espressivi, in quelle prove fisico-facciali di così grande intensità. Il suo poliziotto Murphy è un ritratto d’umanità che ancora crede in qualcosa, in un mondo in cui è difficile “credere” ancora.

È un film del 1981 ma è evidentemente anacronistico, ancorato a concetti e idee di cinema anni Settanta. Non è un caso che Hollywood, nelle sue molteplici derivazioni, in quell’anno stava andando verso altri lidi, e proprio una storia così dura, seppur piena di momenti da “commedia”, colpisce nel segno  e, proprio grazie a Newman, diventa credibile, umana ed ancora attuale.

Pur nei suoi difetti, un film da recuperare.

 

Precedente Bronco Billy (1980) di Clint Eastwood Successivo 40.000 dollari per non morire (The Gambler) (1974) di Karel Reisz