Gemini Man (2019) di Ang Lee

Gemini Man rimane a mio giudizio soffocato dalla più che ventennale storia produttiva, di tecnica sperimentale e di ricerca del regista, che è alla sua base. Risale infatti a ventidue anni fa l’idea originale dello sceneggiatore Darren Lemke di portare a termine un progetto sviluppato dal dipartimento effetti speciali della Disney, la famosa Secret Lab, che prevedeva una tecnica di ringiovanimento facciale atta a creare un gioco narrativo tra un personaggio e il suo antecedente giovane. Da quel momento si sono succeduti numerosi sceneggiatori, tra cui David Benioff, sono stati coinvolti vari registi, tra cui Tony Scott, Curtis Hanson, Joe Carnahan fino al definitivo Ang Lee, e sono state interpellate diverse star di Hollywood, come Harrison Ford, Mel Gibson, John Voight, Nicolas Cage fino a Will Smith.

In preparazione al futuro film e per mostrare gli effetti della nuova tecnica, nel 2002 la Secret Lab realizzò un cortometraggio intitolato Human Face Project, che appunto garantiva la creazione in computer grafica di un clone più giovane del protagonista. Mentre il film non riusciva ad entrare in produzione a causa del lento sviluppo della tecnologia necessaria, vennero successivamente girati altri film, tra cui Il curioso caso di Benjamin Button (2007), Captain America – Il primo Vendicatore (2011) e in tempi recenti The Irishman di Martin Scorsese, che risultano essere successivi a questo progetto. Nel frattempo, dal punto di vista produttivo, la Skydance acquistò il film dalla Disney e nel 2016 Jerry Bruckheimer subentrò nel progetto come produttore.

In questi ultimi anni la carriera di un regista di nome Ang Lee è stata caratterizzata da una continua ricerca sperimentale. Oltre a Vita di Pi, girato in 3D e con cast animale completamente creato al computer, il regista taiwanese ha realizzato Billy Lynn – Un giorno da eroe, un ibrido tra war movie e mélo, che ha avuto il pregio di essere l’antesignano dei film girati ad una maggiore frequenza di frame al secondo. Questa è stata una delle molle perché la produzione scegliesse nel 2017 Ang Lee come il regista di Gemini Man.

Le caratteristiche peculiari, difatti, di Gemini Man diretto da Ang Lee sono quelle di essere girato in 4K 3D e in HFR, in High Frame Rate, passando così da 24 frame al secondo alla frequenza di 120 frame al secondo, oltre naturalmente ad un uso continuo di computer grafica.

L’espediente narrativo che possa sfruttare al meglio la nuova tecnica di ringiovanimento, unito al 3D+, ovvero una versione potenziata del 3D stereoscopico a 120 fotogrammi al secondo, risultano alla prova pratica un doppio fallimento. Innanzitutto perché il tentativo di caricare in maniera iperrealista ogni immagine e di rendere i movimenti di macchina sempre più di fluidi, rimane solo sulla carta, in quanto bisogna trovare un cinema che lo proietti e lo mostri nella sua massima espressione, cosa ancora quasi impossibile. Inoltre la tecnica rivoluzionaria di ringiovanimento a lungo sperimentata e finalmente messa in atto da Ang Lee, si coniuga con una storia che invece non si proietta avanti in maniera spericolata e altrettanto innovativa, rimanendo ancorata in pastoie moraleggianti.

La vicenda di Gemini Man ruota attorno al personaggio di Henry Brogan, un sicario talmente infallibile da essere assoldato dalla Defense Intelligence Agency, servizio segreto americano. Quando però, a 51 anni, Henry mostra i primi dubbi sulla sua condizione e, dopo l’ultimo incarico a Budapest, decide di smettere i panni di killer al soldo del governo e tornare a casa sua in Georgia, subentrano i problemi. La DIA non prende bene la notizia del suo pensionamento e, convinta che questo sia a conoscenza di qualcosa che non dovrebbe sapere, manda quella notte stessa dei soldati del governo incaricati di uccidere lui e chi cerca di proteggerlo. Henry riesce a eliminarli e in seguito parte con una donna, Danny Zakarewski (interpretata da Mary Elizabeth Winstead), ormai legata a lui, per fuggire da altri soldati. I due sopraggiungono su un’isola vicina, venendo raggiunti dal Barone (l’attore Benedict Wong), un vecchio amico di Henry, che li porta in Colombia, dove sembrano al sicuro. In realtà da qui in poi Henry dovrà vedersi da continui attacchi, in particolare dal suo alter ego più giovane, creato in laboratorio grazie un esperimento intitolato Gemini e creato da Clayton Verris (Clive Owen).

Proprio a questo punto si innesta l’idea di voler sperimentare la tecnica che permette con incredibile accuratezza di ringiovanire Will Smith e crearne uno identico al se stesso di 25 anni fa, un clone giovane con cui battagliare in sequenze a ritmo fotonico. Naturalmente lo interpreta sempre lui, ma sullo schermo non c’è un Will Smith ringiovanito ma un essere umano digitale completamente nuovo. Per replicare Smith a 23 anni, Gemini Man non ha usato la tecnica del “de-ageing”, il ringiovanimento digitale, che usa effetti speciali per appianare i segni dell’invecchiamento su un attore. I cineasti hanno creato una sorta di maschera digitale di Will Smith a 23 anni, talvolta usando vecchi filmati di Smith, e poi l’hanno estesa su viso e corpo dell’attuale Will Smith.  Il Will giovane è sempre interpretato da lui tramite il processo di motion-capture, (un attore recita con dei sensori sul corpo e sul volto che catturano i movimenti dei muscoli facciali), lo stesso usato per creare Thanos o la scimmia Cesare de Il pianeta delle scimmie  ma diverso dal ringiovanimento di Samuel L. Jackson in Captain Marvel. Qui non hanno ripulito Will Smith per portarlo indietro nel tempo, hanno proprio creato un personaggio digitale ex novo.

Tutto ciò però porta ad una scelta narrativa che finisce con la banale e scontata critica alla clonazione e al suo iconoclasta tentativo di sostituirsi a Dio, fino a datare l’esperimento creato dalla società terroristica Gemini e da Clayton Verris appena prima il metodo che ha portato la pecora Dolly ad essere stata clonata da una cellula somatica. La vera battaglia diventa così contro il folle tentativo di disumanizzare per trovare il soldato perfetto, senza emozioni ed immune a qualsiasi paura compresa quella di affogare, dove l’unico momento in cui si sente davvero felice è quando è pancia a terra, con il dito appoggiato sul grilletto, pronto a far fuoco.

Questo accade nonostante Ang Lee disegni molto bene l’azione per nascondere, aiutare e coinvolgere lo spettatore e fargli apprezzare i pregi della tecnologia in un film fatto di lotte e colpi di scena. Le parti digitali di Gemini Man sembrano flirtare con le ispirazioni video ludiche, creando ambienti che assomigliano ad una mappa da multiplayer tra cecchini e fuochi incrociati, e trovando le angolature migliori da cui sparare. Le potenzialità tecniche diventano anche artistiche grazie ad un vero regista che sa lavorare con gli attori, inventare la giusta illuminazione e sfruttare il dramma per l’azione. Il film però rimane un’occasione mancata.

Di Marco Chieffa

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